Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/08/2018, a pag. 27 con il titolo "La 'congiura umanitaria' di Pietromarchi, fascista pentito che salvò centinaia di ebrei", il commento di Michele Valensise.
Michele Valensise
I regimi autoritari non si reggono solo su ideologi fanatici o carnefici volenterosi. Alla base del consenso che li puntella ci sono anche dirigenti di apparati e alti funzionari, che oscillano come un pendolo tra dubbi e obbedienza, riserve e illusioni. È tra loro che a volte la fedeltà allo Stato si intreccia malignamente con l’osservanza dei precetti del governo, anche quando questi dovrebbero essere disattesi per illegittimità o denunciati per conclamata illegalità.
Luca Pietromarchi
Il secolo scorso, che ha visto l’ascesa e la dissoluzione di tante dittature, offre qualche esempio della fatica e dell’ambiguità necessarie per comporre la possibile contraddizione tra valori di fondo e direttive politiche indifendibili o illecite. Nell’Italia fascista, inizialmente il regime si avvalse nei suoi gangli amministrativi di personalità certo allineate con la sua ideologia, ma anche capaci di margini di autonomia intellettuale e di momenti di dignità personale.
Questi dilemmi sembrano segnare la vicenda umana e professionale di uno dei migliori diplomatici italiani di quegli anni, Luca Pietromarchi (1895-1978), nazionalista cattolico, stretto collaboratore di Ciano, responsabile degli Esteri per la Guerra civile in Spagna e poi per l’offensiva nei Balcani. A Ginevra, nei primi anni di carriera, aveva maturato sfiducia per il multilateralismo della Società delle Nazioni e condiviso il programma di Mussolini, fino a falsificare nel maggio 1940 i dati dei danni economici del blocco anglo-francese per l’Italia, per compiacere il Duce e offrirgli pubblicamente una carta a favore dell’entrata in guerra.
Protagonista di incontri e negoziati cruciali, diffidava tuttavia, con insofferenza esplicita, dei tedeschi e della subordinazione politica e militare di Roma a Berlino. Sposato con una donna di origine ebrea, si era riconosciuto nell’avversione del Vaticano alle leggi razziali, intravedendo nella Chiesa cattolica (e nella monarchia) un fattore di stabilità e di pace sociale in antitesi al regime.
All’inizio della guerra, la posizione privilegiata di osservatore del conflitto e delle spietate operazioni naziste contro ebrei, minoranze, oppositori e popolazioni soggiogate dalla occupazione militare tedesca, specie in Croazia, lo indusse a rivedere molti suoi giudizi e pregiudizi. Riconobbe la responsabilità delle gerarchie fasciste nella catastrofica gestione della guerra, in linea con quanto alla vigilia delle ostilità il cognato Bernardo Attolico aveva previsto dall’ambasciata a Berlino con rigore e lungimiranza.
Soprattutto aggirò le direttive governative di collaborazione con i nazisti per il rastrellamento degli ebrei nei Balcani, rifiutando di assistere impassibile ai crimini degli ustascia. Contro gli ordini, Pietromarchi promosse con altri coraggiosi diplomatici e militari italiani (tra cui Blasco Lanza d’Ajeta, Roberto Ducci, Vittorio Castellani), una «congiura umanitaria» che salvò centinaia di innocenti ebrei dalle persecuzioni del Reich e sulla quale negli anni seguenti nulla rivelò, con pudore oggi raro. Costretto in clandestinità dopo l’8 settembre, perché ricercato dai tedeschi, all’indomani della liberazione subì l’epurazione per «aver partecipato alla vita politica del fascismo» e fu poi reintegrato nel servizio diplomatico da Sforza nel 1947, concludendo la sua carriera come ambasciatore ad Ankara e Mosca e scrittore fecondo.
La copertina (Viella ed.)
Un nuovo libro, molto ben documentato, dello storico Gianluca Falanga (Storia di un diplomatico, ed. Viella, pp. 436, € 33) ripercorre sconvolgimenti epocali per l’Italia e l’Europa attraverso il profilo e l’evoluzione politica di Luca Pietromarchi, avvalendosi anche di un prezioso diario personale messo ora a disposizione dalla famiglia. Falanga sistematizza particolari inediti e fa riflettere sul ruolo intraprendente della diplomazia del tempo. Ma ancora oggi, in un diverso contesto, il valore aggiunto della diplomazia resta nella sua capacità di proposta e se del caso di critica, non solo di esecuzione. Sicché è bene evitare sia di indebolire questo essenziale strumento super partes di difesa degli interessi nazionali, sia di tollerare un controllo d’altri tempi, puntuale e occhiuto, su eventuali dissonanze con la linea «ufficiale» del momento. Sarebbe sì un cambiamento, ma in peggio.
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