|
|
||
MicroMega, un delirio contro Israele A destra: nel riquadro grande, la realtà in Israele; in quello piccolo, quello che mostrano i media In occasione del 70° anniversario di Israele un gruppo di 32 ebrei italiani ha scritto una lettera, indirizzata a MicroMega, in cui accusava Israele, incominciando addirittura dal 1948, anno della fondazione dello Stato ebraico moderno che, secondo i firmatari, ha provocato la Nakba dei poveri palestinesi. Con queste parole vergognose hanno voluto fare gli auguri a Israele che, per loro, se non esistesse, sarebbe meglio. La lettera, che potete leggere aprendo il link che riporto qui di seguito, è un esempio di come Israele sia l'unico stato al mondo a suscitare un odio viscerale per la sua esistenza, odio condiviso persino tra chi dovrebbe amarlo ed esserne orgoglioso. Israele e Gerusalemme, due parole che a nominarle scatenano rabbia e ostilità. Niente del genere è mai accaduto, nessun paese, nessuna nazione, nemmeno la peggiore, assassina, retrograda dittatura, provoca reazioni così viscerali, da bava alla bocca, in tanta, troppa gente. Fa male e fa schifo pensare che parte di questa gente appartenga al popolo ebraico ed è incomprensibile tanta ostilità per un Paese che, ancora oggi, è rifugio per tanti ebrei che scappano da violenze e antisemitismo. http://temi.repubblica.it/micromega-online/70-anniversario-di-israele-la-lettera-di-denuncia-di-32-ebrei-italiani/ Alla lettera di quei 32 hanno risposto altri 32 ebrei, tra cui la sottoscritta, per smentire le loro deliranti falsità sul Paese che amiamo e abbiamo mandato la lettera allo stesso MicroMega chiedendone la pubblicazione. Hanno nicchiato ma dopo varie insistenze l'hanno pubblicata con una contro analisi politica che definire infame e vergognosa è poco. Ingrid Colanicchia, giornalista di MicroMega, laureata in scienze politiche, critica Israele affidandosi al veleno di Breaking the Silence, Ilan Pappe, Amira Hass e Gideon Levy, quanto di più odiosamente antisemita poteva trovare, dunque, e basandosi sulla lettera di un israeliano, cui i terroristi nel 2003 avevano ucciso la sorella, che protestava con l'allora ministro della difesa, Moshe Ya'alon. Un'analisi scandalosa, banale perchè non fa altro che ripetere bovinamente i soliti discorsi della peggiore, della più becera e immorale sinistra antisemita/antisionista. Non una parola sulle violenze palestinesi contro la popolazione civile di Israele, sui nostri bambini terrorizzati, sui bambini di Gaza usati barbaramente come scudi umani. Non una parola sulla "marcia del ritorno", una vera guerra fatta a suon di bombe, missili, coltelli urlando "A morte gli ebrei". Non una parola sull'odio razziale degli arabi palestinesi nei confronti degli ebrei, odio cui vengono educati fin dalla scuola materna. Naturalmente nemmeno una parola sulla vita miserabile cui Hamas costringe i gazawi, anzi la Colanicchia qualcosa scrive in proposito e ne attribuisce la colpa a Israele. Qualcuno aveva dei dubbi? Un delirio che ci dimostra quanto sia profondo l'odio della sinistra contro l'unico stato ebraico esistente, un odio cui corrisponde un amore inconsulto per arabi e islam. Tutto questo distruggerà l'Europa.
Ecco la lettera di protesta contro MicroMega: http://temi.repubblica.it/micromega-online/israele-palestina-come-fermare-la-spirale-dell-odio/ Daniele Sher, Cecilia Cohen Hemsi, Miriam Di Segni, Simon Silvio Fargion, Angela Polacco, Beniamino Lazar, Renzo Cesana, Tamara Kienwald Cesana, Vito Anav, Nora Ortona, Giacomo Zippel, Deborah Fait, Gideon Arjeh, Wohlgemuth, Beki Braha, Marina Norsi, Joe Shammah, Davide Nizza, Ester Bianca Amiras, Raffaele Picciotto, Giulia Della Seta, Alessandra Waldman, Sergio Del Monte, Renata Buzzi, Alessia Menasci, Alessia Habib Moscati, Samuele Giannetti, Crescenzo Di Castro, Yael Di Castro, Letizia Di Castro, Angelo Di Castro, Grazia Golan, Ariela Di Castro. Ecco la risposta di MicroMega: Lascio da parte la prima metà della vostra lettera – quella in cui affermate di non voler entrare nel merito di una serie di questioni e vi limitate a lanciare accuse generiche al movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), all’Onu, all’Unrwa (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi) – e mi concentro sulla seconda. Scrivete che i cittadini di Gaza potrebbero vivere bene, dato che l'intera Striscia è nelle loro mani. Ma cosa significa avere nelle proprie mani un lembo di terra (il territorio è di 365 km², circa due volte la superficie del comune di Milano) sottoposto a embargo da più di dieci anni? Gaza è infatti ancora oggi soggetta al blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto da Israele dal giugno del 2007. Penso non ci sia bisogno di illustrare come le continue restrizioni alle esportazioni paralizzino l’economia e contribuiscano a impoverire la popolazione, che nel caso di Gaza ammonta a circa un milione e 800mila persone (con una densità abitativa pari a 4.900 persone per km²: per avere un’idea dell’ordine di grandezza di questo dato, basti pensare che in Italia è pari a 200). Se a ciò si aggiunge che, a parte Israele, la Striscia confina solo con l’Egitto, che ha quasi completamente chiuso il valico di Rafah, si ha un quadro più preciso della situazione. Israele stabilisce chi e cosa può uscire ed entrare nella Striscia; a quante miglia dalla costa i pescatori palestinesi possono gettare le proprie reti (sotto il tiro – e a volte gli spari – della marina militare israeliana); l’estensione stessa delle aree coltivabili, considerata l’istituzione e il mantenimento di un’ampia porzione di terra all’interno della barriera che separa la Striscia da Israele, la buffer zone, in cui è fatto divieto di ingresso – e ovviamente di coltivazione – ai palestinesi. E gli esempi potrebbero proseguire. Gaza vive in uno stato di crisi umanitaria, caratterizzata da interruzioni dell’erogazione dell’energia elettrica, da una ridotta fornitura di acqua potabile con implicazioni igienico-sanitarie e da crescenti difficoltà d’accesso all’assistenza medica. Crisi umanitaria che è risultato diretto di quella che altro non è che una punizione collettiva da parte di Israele. A ciò si aggiungano le operazioni militari condotte da Israele in questi anni, dalla cui triste conta dei morti emerge se non altro una sproporzione tra le forze in campo che ricorda quella tra Davide e Golia. Insomma quando le possibilità di autodeterminazione sono così scarse un’affermazione come la vostra sul fatto che «i cittadini di Gaza potrebbero vivere bene» suona come una presa in giro. Dite poi che «gli arabi di Gaza non vogliono il ritorno ai confini del 1967» ma il primo a non rispettare quei confini è Israele che continua a costruire colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est, in spregio tra l’altro al diritto internazionale che ne ha decretato l’illegalità. Scrivete: «Questi arabi sono stati educati, nelle loro madrassa e nelle scuole dell'ONU, a volerci morti». Vi riporto una storia che mi ha colpito molto (al pari di molte altre che per ragioni di spazio vi risparmio). Arrivammo fino al checkpoint della Farmacia. C’erano due o tre ragazzini che non passavano dal metal detector. Fermammo la jeep, il comandante della compagnia scese e portò uno dei ragazzi in un vicolo. […]. Prima si mise di fronte al ragazzo, che era vicino al muro, gli si mise davanti, lo guardò per un momento e poi lo soffocò così col… lo tenne in questo modo col gomito. […]. Lo bloccò così contro il muro. Il ragazzo era stravolto, il comandante della compagnia gli urlava, in ebraico, non in arabo. Poi lo lasciò andare. Il ragazzo alzò le mani per asciugarsi gli occhi, e il comandante gli tirò una botta. Il ragazzo abbassò le mani e smise di asciugarsi gli occhi, tenne le mani giù e a quel punto cominciarono gli schiaffi. Tanti. Botte. E urla di continuo. […]. [Il comandante poi] venne fuori, dicendo che andava tutto bene, chiamò il comandante della pattuglia che era al checkpoint e lì di fronte al ragazzo disse al comandante: «Ecco come vanno trattati». Poi diede al ragazzo altri due schiaffi. A raccontarla, nel libro La nostra cruda logica, è un soldato dell'ong israeliana Breaking the Silence, l'organizzazione che riunisce veterani ed ex combattenti dell’esercito israeliano (IDF) che hanno prestato servizio nei Territori palestinesi dall’inizio della seconda Intifada a oggi, nata nel 2004 con l'obiettivo di far conoscere la verità circa la presenza militare israeliana nei Territori occupati. Se – e sottolineo se – i bambini palestinesi imparano l’odio lo imparano prima di tutto da episodi come questo. Che sono drammatica quotidianità. Le più di 300 pagine che compongono questo libro non ne sono che una delle innumerevoli testimonianze. Avrei potuto raccontarvi altre storie, episodi che ho visto coi miei occhi quando sono stata in Palestina e in Israele, ma ho scelto di riportarvi questa perché ha la forza che le dà il fatto di non essere raccontata da qualcuno che potrebbe essere percepito come di parte. E c’è da dire che in Israele non è solo la voce dei soldati di Breaking the Silence a raccontare un’altra verità. Ci sono giornalisti coraggiosi come Gideon Levy e Amira Hass, ci sono accademici come Ilan Pappe (vittima di una campagna denigratoria e di fatto costretto a lasciare il paese in ragione delle sue critiche all’«unica democrazia del Medio Oriente»), ci sono gli obiettori di coscienza al servizio militare, che pur di non dare il proprio contributo all’occupazione preferiscono andare in carcere (la legge non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza per ragioni politiche). Ed è quindi ancora alla voce di un cittadino israeliano che faccio ricorso in conclusione, prendendo a prestito le parole scelte quattro anni fa da Lior Ben Eliahu – fratello di Tamar, uccisa a Gerusalemme l’11 giugno del 2003 in un attentato su un autobus – per rispondere pubblicamente alla consueta lettera inviata dall’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon alle famiglie delle vittime nel “Giorno della Memoria dei soldati israeliani caduti e delle vittime del terrorismo”. Caro ministro della Difesa Moshe Ya’alon, vorrei rispondere, in quanto fratello di una vittima e membro di una famiglia in lutto, alla lettera che ha inviato alle famiglie delle vittime in occasione del Giorno della Memoria dei soldati israeliani caduti e delle vittime del terrorismo. Così come lei si è assicurato che la sua lettera fosse diffusa in lungo e in largo, voglio anch’io rendere pubblico questo mio messaggio. Lei scrive che, nonostante i successi conseguiti da Israele in vari settori, «non abbiamo ancora raggiunto la pace e la tranquillità» e che «continueremo a lottare per la pace». Le chiedo, ministro Ya’alon, in questo Giorno della Memoria, un minimo di introspezione. Ha veramente cercato di condurre Israele e i suoi cittadini alla «pace e alla tranquillità»? Sta veramente «lottando per la pace»? Già prima di diventare ministro della Difesa, lei ha dichiarato che non c’è spazio per la costituzione di uno Stato palestinese. E solo il mese scorso, mentre il processo di pace incontrava difficoltà, lei ha deciso che era il momento giusto per approvare l’espansione degli insediamenti ebraici ad Hebron e per violare lo status quo. Inoltre, ha deciso di approvare l’espropriazione di 984 dunam di terra palestinese nel blocco dell’insediamento di Gush Etzion e di dichiarare queste terre di proprietà dello Stato allo scopo di espandere gli insediamenti di Neve Daniel, Elazar, Alon Shvut e l’avamposto illegale di Nativ Ha’Avot. Tali azioni, insieme alla sua opinione sulla costituzione di uno Stato palestinese, fanno sì che io mi chieda che cosa significhi per lei la parola “pace” e se lei sia veramente interessato a perseguirla. Vuole condurre i cittadini israeliani alla pace e alla tranquillità o realizzare quanti più insediamenti possibili tra i villaggi palestinesi? La cosa triste è, signor ministro della Difesa, che per raggiungere la pace e la tranquillità è necessario risolvere il conflitto che lascia sempre più famiglie in lutto. Sembra invece che lei e il suo governo non siate interessati a risolverlo ma piuttosto a “gestirlo”. E gestirlo significa continuare a imporre il controllo militare su un altro popolo, il che porta inevitabilmente alla resistenza di questa nazione e alla repressione di questa resistenza, fino alla nausea. Continuare a “gestire il conflitto” porterà solo ad altre morti e ad altre famiglie in lutto. In quanto ministro della Difesa, sono certo che lei comprenda che c’è una differenza tra l’affrontare i rischi immediati e quelli a lungo termine. Nel lungo periodo, nonostante i successi di Israele su vari piani, il protrarsi del controllo militare sui palestinesi e del conflitto costituisce il rischio più grande per la sicurezza dei cittadini di Israele e per il futuro del Paese. Il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, gli attacchi terroristici contro i cittadini israeliani, la resistenza dei terroristi contro i soldati dell’esercito israeliano e le tensioni con Hezbollah nel nord del Paese sono il risultato della scelta di “gestire il conflitto” anziché spingere per la sua soluzione. Pertanto lei deve mostrare responsabilità per la sicurezza a lungo termine dei cittadini e compiere i passi che porteranno alla soluzione del conflitto. Si può discutere su quale sia la soluzione, ma non c’è niente da discutere quanto al compiere quei passi che riconoscano il diritto del popolo palestinese a vivere in questa terra insieme a noi, sotto un’entità che garantisca loro tutti i diritti e le libertà riconosciute ai cittadini di uno Stato democratico. Questi diritti e queste libertà non si realizzeranno necessariamente a spese della sicurezza dei cittadini di Israele, ma al contrario la garantiranno. Lei scrive che le famiglie delle vittime hanno pagato «il prezzo più pesante affinché si possa continuare a vivere in questo Paese». Ma io mi chiedo se non stiamo tutti pagando il prezzo del fatto che lei e il suo governo non siete disposti a compiere passi coraggiosi per riportare la pace e la tranquillità. Non ho perso mia sorella affinché «si possa continuare a vivere in questo Paese», ma perché i governi israeliani non hanno imparato a ragionare sul lungo termine, rafforzando il controllo militare sui palestinesi, espandendo gli insediamenti, distruggendo ogni speranza di cambiare le cose e preferendo la “gestione del conflitto” a una soluzione che garantirà la sicurezza dei cittadini israeliani. Concludo con le parole dello scrittore israeliano Yehonatan Geffen: «Finché non ci libereremo da questa nostra colonia, non avremo nessun Giorno dell’Indipendenza ma solo Giorni della memoria».
|
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |