Francesca Paci
Come sarà la Siria di domani? Uno sguardo sul Paese che a 87 mesi, 500 mila morti e 5,6 milioni di rifugiati dalle prime pacifiche proteste contro il regime di Assad è ancora lontano dalla pacificazione ci viene dal rapporto sui libri di testo dell’anno scolastico 2017-2018 appena pubblicato dal think thank Impact-se (Insitute for Monitoring Peace and Cultural Tolerance in School Education). Parliamo ovviamente delle zone riconquistate da Damasco, e (così come a suo tempo nei territori controllati e indottrinati dallo Stato islamico) la didattica segue passo passo la narrativa politica. In questo caso dunque, idioma russo obbligatorio, panarabismo identitario, la storia degli ultimi 7 anni «raccontata come una catastrofe naturale più che come un virulento conflitto civile».
Il primo dato che emerge dai sussidiari consegnati agli oltre tre milioni di figli della guerra è il rapporto con Mosca, nettamente prevalente rispetto a quello con Teheran.
Assad: "Sono capace a lavarmi da solo"
Già dal 2014 il russo fa il paio con l’arabo nella formazione linguistica degli alunni siriani e affianca lo studio della cultura, soprattutto scientifica, prodotta durante e dopo l’Unione Sovietica (Yuri Gagarin, si evince dal rapporto, sembra quasi un eroe nazionale). Di contro, se la formazione scolastica prelude ad indirizzi diplomatici, allora le poche pagine dedicate all’ex impero persiano tradiscono un certo rifiuto della cultura politica komehinista (ad eccezione della comune avversione per Israele) e un atteggiamento piuttosto antagonista (la provincia iraniana di Khuzestan, storicamente percorsa da tensioni etniche e invasa nel 1980 dall’Iraq baathista di Saddam, viene indicata seccamente come un territorio arabo). Vale a dire che seppure tatticamente l’alleanza politica tra Damasco e Teheran resta solida, le sinergie perdono terreno sul piano culturale (al contrario c’è grande enfasi sull’antica civiltà egiziana).
Da questo punto di vista si colgono pochi riferimenti anche ad Hezbollah, altro grande sponsor militare di Damasco in questi 7 anni di guerra esorcizzati oggi dalla bandiera governativa ri-issata accanto a quella moschea al Omari di Daraa da cui nel 2011 partì la protesta anti regime. Come se, nonostante l’affinità con i vicini sciiti, il regime alawita di Assad non potesse più ignorare interamente un Paese che, armi in pugno, ha rifiutato la dittatura della minoranza sulla maggioranza sunnita. La narrativa, a fuoco sullo scontro con Israele anziché sulle rivolte interne, è rovesciata: non è il partito di Dio a aver aiutato Assad ma la Siria araba a coprire le spalle alla «resistenza» anti-sionista.
«La speranza che la Siria potesse temperare la sua tradizionale ostilità baathista nei confronti di Israele dopo la spaventosa guerra civile può tranquillamente essere archiviata, la retorica resta immutata: Israele è uno Stato terrorista rispetto al quale la guerra è legittimata in tutte le sue forme, compresi gli attacchi kamikaze» spiega Marcus Sheff, uno dei curatori del rapporto.
Le minoranze, infine, l’anima multiculturale della Siria in nome del cui fragile equilibrio è sempre stato giustificato il pungo di ferro del regime. Secondo i dati di Impact-se solo la narrativa relativa ai cristiani risponde agli standard dell’Unesco sulla Pace e la Tolleranza, i restanti tasselli del mosaico religioso siriano (druso, kurdo, yazida...) semplicemente non vengono insegnati.
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