Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/07/2018, a pag.25 con il titolo "L’uomo che disse 'È scontro di civiltà' ", il commento di Federico Rampini.
Federico Rampini rivaluta Samuel Huntington, che per primo - inascoltato - ha parlato dello "scontro delle civiltà". Rampini sottolinea come pochissimi abbiano prestato ascolto a quanto Huntington diceva e scriveva. Quello che Rampini omette di scrivere è che lui stesso ha fatto parte della folta schiera di detrattori di Huntington. L'intervento del giornalista è perciò ipocrita e tardivo.
Ecco l'articolo:
Federico Rampini
Prima o poi bisogna tornare a lui: Samuel Huntington, l’intellettuale che ebbe sempre ragione troppo presto, in anticipo sui tempi. Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa e non si finisce mai di riscoprirlo. Ieri per lo “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam. Oggi per l’ondata di risentimento e paura verso l’immigrazione. Anche questo lui previde, in un’opera destinata a scatenare enormi controversie – come tutti i suoi saggi – perché rivendicava il diritto a difendere l’identità “bianca-anglo-protestante” degli Stati Uniti. Come accade ai grandi – da Karl Marx a Francis Fukuyama, un allievo di Huntington – anche lui è stato più criticato che letto: spesso chi si scaglia contro le sue tesi si è fermato al titolo di un libro.
Samuel Huntington
L’inclassificabile Huntington è stato bersaglio di accuse – e poi ripensamenti, rivalutazioni – fin dall’inizio della sua brillante carriera universitaria. L’establishment accademico di Harvard lo boicottò negandogli una cattedra, che poi dovette dargli: e lì avrebbe insegnato per mezzo secolo. Di origini modeste, era “destinato” ad essere progressista ma anche a fare infuriare i suoi. Nel 1957 il suo primo saggio importante, The Soldier and the State, viene scambiato per un’apologia dell’etica guerriera dell’America, mentre è una severa difesa del controllo civile sugli apparati militari (ispirato dal duro scontro fra il presidente Truman e il generale MacArthur sulla guerra di Corea). Non giova alla sua popolarità fra i progressisti la sua difesa della guerra in Vietnam. Eppure l’unica volta in cui servì in un governo – insieme al collega e amico Zbigniew Brzezinski – fu l’Amministrazione democratica di Jimmy Carter, disprezzato dalla destra come una “colomba”. Tra le opere di Huntington da riscoprire c’è un rapporto degli anni Settanta scritto con Fukuyama per la Trilaterale, organizzazione che tentò di essere pensatoio e cabina di regia dell’alleanza Usa-Europa-Giappone. Oggi è di moda cercare analogie fra il nostro tempo e gli anni Venti-Trenta del secolo scorso. Ma gli anni Settanta sono almeno altrettanto utili come precedente: vedi la crisi di autostima delle liberaldemocrazie che si consideravano sopraffatte da problemi come la stagflazione, i conflitti sindacali, la crisi energetica, l’ascesa del Terzo mondo, il terrorismo, l’espansionismo del blocco sovietico. Nel rapporto per la Trilaterale Huntington conia il concetto di overload o “sovraccarico di domanda” che le opinioni pubbliche rivolgono ai governi democratici. Oggi Xi Jinping, Vladimir Putin, Erdogan e Orban vogliono convincerci che il sistema liberaldemocratico occidentale è debole, caotico, inadeguato. Ci stanno riuscendo, si direbbe.
La copertina (Garzanti ed.)
Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti) esce nel 1993, quando la superpotenza Usa sta assaporando il suo “momento unipolare” cioè una leadership solitaria e indiscussa; otto anni prima che l’attacco alle Torri gemelle imponga la jihad islamica come una grave minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Quel saggio viene riscoperto, in modo frettoloso e superficiale, dopo l’11 settembre 2001. Molti lo scambiano per un manifesto a favore di una “contro-guerra santa”, che mobiliti l’Occidente per ricacciare indietro il fondamentalismo islamico. Huntington viene accusato ex post di legittimare l’invasione dell’Iraq, avvenuta dieci anni dopo la pubblicazione del saggio. Molti lo considerano tuttora il padre teorico dei neoconservatori di cui era piena l’Amministrazione di George W. Bush (Wolfowitz, Bolton, Perle). Ma il libro di Huntington era molto di più e molto di meno. Non “esortava” allo scontro di civiltà. Constatava che dopo la fine della Guerra fredda, superato il confronto ideologico tra comunismo e liberaldemocrazia capitalista, riemergevano linee di frattura più antiche e profonde, legate alle grandi civiltà e alle grandi religioni. L’interesse non era solo nella capacità di prevedere l’aggressione islamica, ma anche le divergenze radicali tra noi e il modello confuciano (vedi l’uso che ne sta facendo oggi Xi Jinping). Giusta anche la sua attenzione al mondo induista, che con l’Islam ha avuto rapporto più antichi e più conflittuali di noi. Sotto Donald Trump è importante rileggere un saggio antecedente e altrettanto premonitore di Huntington, sulla “ispanizzazione” degli Stati Uniti e i timori per l’identità del nucleo originario Wasp (white, anglo-saxon, protestant). La nuova America, le sfide della società multiculturale (Garzanti) esce nel 2004 quando il melting pot multietnico non sembra covare le tensioni che vediamo oggi. Il titolo originale inglese – Who Are We? Chi siamo? – è problematico e inquietante. La tesi, poco “politically correct”, è che l’immigrazione ispanica, soprattutto messicana, non viene integrata facilmente come altre ondate precedenti. Ho raccolto di persona tante testimonianze di italo-americani elettori di Trump, che rilanciano questo interrogativo: perché gli immigrati italiani dall’Ottocento in poi ambivano a farsi accettare imparando al più presto l’inglese, mentre quelli messicani rivendicano il diritto di continuare a parlare lo spagnolo, e lo hanno ottenuto con forza di legge? Perché una certa sinistra legittima l’idea che loro si stiano “riprendendo” dei territori ex-messicani come la California e il Texas, e poi si stupisce se Trump prende voti grazie a una psicosi d’assedio dell’America bianca? Sono domande scomode. Huntington le formulò per primo, quasi sempre inascoltato dai suoi.
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