Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/07/2018, con il titolo "Piano Trump per arginare l'onda Putin" l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
da sin: Bolton, Haley, Pompeo
Notiamo con piacere la scomparsa del nome di Steve Bannon, oggetto di interviste atte a screditare la presidenza Trump. E' bene non dimenticare che Trump si trovò il Bannon fra gli artefici della sua campagna elettorale, messa in piedi dal Partito Repubblicano. Soltanto dopo aver valutato di persona pregi e difetti dei personaggi scelti da altri, Trump iniziò a liberarsene. Bannon tra questi. I sostituti, oltre ai tre 'mastini' citati da Molinari, con l'aggiunta della straordinaria ambasciatrice all'Onu Nikki Haley, sono tutti nomi grande rilievo ed esperienza. Stop with Bannon, please!
Alla Casa Bianca fervono i preparativi per il summit di Helsinki e da ciò che trapela Donald Trump punta ad una prova di forza con Vladimir Putin per ridefinire i rapporti con la Russia recuperando almeno in parte il terreno perduto da Barack Obama. Rassicurato da un’economia nazionale che cresce al ritmo del 4 per cento - le stime sul secondo trimestre - e protagonista di una aggressiva sfida commerciale alla Cina per mettere sulla difensiva il vero rivale globale, il presidente americano guarda al summit finlandese del 16 luglio con l’intenzione di frenare l’espansione strategica della Russia resa possibile da errori e debolezza del predecessore. Affiancato da tre mastini di Washington come Mike Pompeo, John Bolton e John Huntsman, Trump si sta allenando all’incontro come se si trattasse di un match di boxe: definisce l’avversario come «un ex ufficiale del Kgb», fa sapere che si vedranno «da soli, affiancati unicamente dai traduttori» e i portavoce anticipano che si parlerà di «interferenze maligne nelle elezioni di Paesi occidentali» e «violazioni di accordi sul disarmo» da parte russa. Insomma, un confronto a tutto campo. Niente a che vedere con i brevi e timidi colloqui avuti ad Amburgo e Danang. Quello di Trump è un approccio aspro che evoca l’atmosfera da Guerra Fredda di altri summit svoltisi proprio a Helsinki - da Ford -Breznev nel 1975 a Bush-Gorbaciov nel 1990 - ed a ben vedere in tale tattica rientrano anche le aperture della Casa Bianca al Cremlino. Perché far conoscere la disponibilità a «mettere da parte l’annessione della Crimea» ordinata da Putin nel 2014 evoca la scelta di realpolitik fatta nel Dopoguerra da più presidenti Usa di «prendere atto ma non riconoscere» l’invasione dei Paesi Baltici ordinata da Stalin nel 1940. Così come le indiscrezioni sul desiderio di Trump di riammettere la Russia nel summit del G8 puntano a mettere sul piatto un’allettante offerta di apertura economica per ottenere concessioni politiche, proprio come avveniva ai tempi della distensione Usa-Urss che iniziò nel 1975 con la «Dichiarazione di Helsinki». A completare il quadro c’è l’identikit di chi sono i personaggi impegnati a preparare Trump al summit. Perché il segretario di Stato Pompeo è l’ex capo della Cia, il consigliere per la sicurezza Bolton è un alfiere della sicurezza dell’Occidente e l’ambasciatore a Mosca Huntsman ha la più dettagliata conoscenza della «strategia dello scompiglio» con cui il Cremlino tenta di accrescere l’instabilità delle democrazie avanzate. Come dire, Putin a Helsinki si accorgerà che la stagione degli inchini di Obama è davvero archiviata così come la Cina di Xi Jinping ha scoperto di avere in Trump sul terreno del commercio un agguerrito difensore del «made in Usa». Resta da vedere su quali fronti Trump punterà per ridefinire l’equilibrio globale con Putin. La sua imprevedibilità, personale e politica, suggerisce di evitare ipotesi. Ma gli alleati avranno la possibilità di contribuire a tale scelta in occasione del consiglio della Nato che si svolge a Bruxelles poco prima del summit di Helsinki. Ed alcuni suggerimenti stanno già arrivando a Pennsylvania Avenue: le capitali dell’Est vogliono più soldati Usa nella paura di essere invasi come l’Ucraina; Emmanuel Macron, protagonista di telefonate settimanali alla Casa Bianca, punta l’indice sulla Siria pensando al dopo-Assad; Angela Merkel pensa al gasdotto nel Baltico e teme i missili a medio raggio a Kaliningrad perché possono raggiungere Berlino; Theresa May si sente aggredita da una raffica di «influenze maligne», cyber e no; il premier Conte ha in mente la Libia perché il generale Khalifa Haftar della Cirenaica è sostenuto dai russi; per il Giappone la priorità è neutralizzare l’arsenale nucleare nordcoreano mentre per Arabia Saudita-Israele è contenere l’Iran degli ayatollah in Medio Oriente. Tali e tanti approcci al dossier russo confermano quanto è aumentato il peso internazionale del Cremlino durante gli otto anni di amministrazione Obama. E quanto la Casa Bianca ha ora urgente necessità di ridurlo. Ma l’obiettivo è riuscirci con modalità assai diverse da quelle riservate alla Cina perché, mentre per difendere le merci Trump può far leva sullo scontro frontale adoperando i dazi, per disinnescare le più roventi crisi regionali ha bisogno di cooperare con Mosca.
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