Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/07/2018, a pag.8/9 due servizi sull'Iraq , l'intervista a Moqtada Al Sadr di Francesco Semprini e Alberto Simoni e l'analisi di Giordano Stabile
Moqrada Al Sadr con MbS
Francesco Semprini, Alberto Simoni: "Al Sadr risveglia l'orgoglio degli iracheni 'basta interferenze di Iran e sauditi"
«Moqtada Al Sadr sfoggia tutto l’orgoglio di una nazione, l’Iraq, che vuole tornare a essere non solo protagonista della regione ma padrona appieno del proprio destino». Così a meno di due mesi dallo storico successo alle elezioni del 12 maggio di Sairoon (Alleanza per le riforme ndr), la composita coalizione che ingloba comunisti e il suo movimento sciita, l’uomo che quindici anni fa guidò la rivolta contro la presenza americana nel post Saddam, respinge con forza ogni ingerenza straniera negli affari dell’Iraq, a partire da Stati Uniti e Iran. Ma anche da parte dell’Arabia Saudita con la quale – dice – «è tuttavia necessario avviare relazioni stabili per il perseguimento di interessi comuni e per contrastare le minacce terroristiche». Se il messaggio ai Paesi limitrofi (e non) è chiaro, agli iracheni Al Sadr dice che serve uno sforzo comune contro il settarismo, corruzione e volto al perseguimento della rinascita nazionale che prende forma nel principio dell’«Iraqi First». Raggiungere Al Sadr è impresa quasi impossibile. Si sposta continuamente ed è schivo coi media, anche per la delicata missione politica a cui si sta dedicando, come coagulatore di interessi nazionali comuni, ma non nella veste di candidato alla leadership di governo. Ma l’uomo che ha «terremotato» la politica irachena, ribaltando previsioni e generando un’ondata di rinnovato orgoglio ha fatto rispondere alle domande che «La Stampa» gli ha recapitato al suo quartiere generale di Najaf da Jaafar al-Moussawi, suo portavoce e super procuratore nel processo a Saddam Hussein.
Moqtada Al Sadr, gli iracheni hanno votato il 12 maggio e c’è stato un esito favorevole al suo movimento. Quali sono gli obiettivi adesso?
«Prima combattiamo la corruzione, poi dobbiamo costruire una governance tecnica, una sorta di tecnocrazia indipendente, basata sulle specialità, le capacità e il merito».
L’Iraq tornerà a essere leader nella regione?
«Se non facciamo le riforme il Paese non andrà da nessuna parte».
Come si fanno le riforme?
«Tutti i partiti devono prendere le distanze dai propri interessi e adoperarsi per il cambiamento. Da parte nostra l’ayatollah Al Sistani ha manifestato il suo sostegno al progetto di riforme e ci ha dato luce verde».
Che ruolo avrà Teheran nel nuovo Iraq?
«Non vogliamo nessuna interferenza da parte di nessuno straniero nelle questioni politiche interne. Questa è una delle condizioni che Sairoon ha posto a tutti gli associati, nessuno nella coalizione deve prestare fedeltà ad altri Paesi. L’Iran è un interlocutore, rispettiamo il suo governo, ma loro devono rispettare il nostro».
Perché allora il generale Qasem Soleimani delle Guardie rivoluzionarie iraniane era in Iraq alla vigilia del voto?
«Questo cosa non ci preoccupa, né ci riguarda, perché da noi non è venuto e non ci ha chiamato. Lo dovreste chiedere alle persone che lo hanno incontrato. Soleimani, o qualsiasi inviato di altri Paesi non deve interferire con le nostre elezioni. Questo vale per tutti, Iran, Turchia o America; l’Iraq e gli iracheni vengono prima di tutto».
A proposito di America, come mai l’ambasciatore Usa, prima dell’annuncio della vittoria alle elezioni ha incontrato la Commissione elettorale?
«Ecco perché l’indipendenza della commissione su cui ci battiamo è fondamentale. Ripeto, anche nel suo caso è una cosa che non ci riguarda perché non ha parlato con noi, ma se confermato si tratterebbe di un fatto inaccettabile». Che rapporti avete con l’Arabia Saudita?
«Le relazioni con Riad sono buone, stiamo inaugurando una nuova era nei rapporti con i nostri vicini basati su interessi comuni e sul rispetto di un principio fondamentale: la non interferenza».
Gli iracheni non dimenticano però certe vicinanze ad ambienti terroristici.
«Cosa dovremmo fare? Chiudere la porta e non parlare con i nostri vicini? Noi vogliamo andare da questi Paesi proprio perché non ci siano mai più interferenze. In questo modo si può fermare e prevenire altro spargimento di sangue in questo Paese causato dal terrorismo. Siamo convinti che questo nostro punto di vista è il punto di vista dell’Iraq tutto».
Come giudica la politica di Trump nella regione?
«È molto differente rispetto alle precedenti, sicuramente più attiva ma anche più hollywoodiana».
E la scelta di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme?
«È una violazione del diritto internazionale, dei diritti della comunità islamica e dei diritti umani».
Il ritiro delle truppe americane nel 2011 è avvenuto troppo presto o troppo tardi a suo avviso?
«Sempre troppo tardi».
Dopo la ritirata però è esploso il fenomeno Isis, c’è il rischio di ritorno del terrorismo nel Paese?
«Si, fino a quando il terrorismo troverà terreno fertile».
Cosa deve fare l’Iraq affinché ciò non accada?
«Esercitare il potere politico, dar vita a un governo forte e stabile, puntare su un’economia che funzioni, avviare una nuova fase nelle relazioni internazionali e nella politica energetica, e costruire un Paese socialmente giusto. Sino ad oggi eravamo impegnati in altre priorità, il terrorismo, le interferenze straniere, la guerra, la povertà, la corruzione. Oggi però i tempi sono maturi».
Com’è nata la coalizione Sairoon?
«All’inizio abbiamo registrato un partito col nome di Partito della rettitudine. Confrontandoci con tante persone diverse abbiamo capito che era giunto il momento di formare una grande alleanza, di schierarci con altri partiti. È iniziato così un dialogo multidimensionale con altre religioni e realtà dell’Iraq, yazidi, cristiani, sunniti, altre formazioni hanno mostrato interesse ad allearsi con noi. Quello che avevamo in mente era creare una realtà che puntasse a riformare il Paese, a cambiare ciò che non funzionava o era sbagliato, a ripulirlo da ciò che lo incancreniva».
L’alleanza con i comunisti però è singolare.
«La priorità era sostenere qualsiasi persona o candidato che lavorava per l’Iraq e che si batteva per debellare le peggiori malattie del Paese, a partire dalle violenze settarie. I comunisti sono iracheni e vogliono lavorare per il bene del Paese, abbiamo qualcosa in comune, la nazionalità e l’interesse nazionale. Sairoon vuole superare i confini del settarismo e noi vogliamo dimostrare di non essere quelli di prima. La nostra è un’alleanza patriottica e di legalità senza barriere di appartenenza, un impegno per la cosa pubblica. Per questo lasciamo a casa le questioni private».
Anche se il primo ministro sarà comunista?
«Se lavora nell’interesse della nazione sì. Per spiegare lo spirito di questa alleanza, tra i nostri candidati c’erano donne che non indossano il velo».
Pochi giorni fa c’è stata un’esplosione a Sadr City: come si pone Sairoon rispetto alle formazioni militari che proliferano nel Paese?
«La consegna delle armi è una delle prerogative della coalizione. Il processo di disarmo, che non riguarda i piccoli calibri detenuti per la difesa personale, partirà proprio da Sadr City».
E cosa diranno le formazioni che nel 2014 difendevano la nazione dall’Isis?
«Non importa, non possiamo lasciare armi pesanti in giro, sarà responsabilità del governo ripristinare il controllo da parte delle autorità».
Giordano Stabile: " Dal petrolio al nuovo eservito, così Baghdad riprende il potere "
Le mitragliatrici montate su torrette automatizzate, in grado di essere azionate a distanza, punteggiano la barriera ad alta tecnologia lungo la frontiera con la Siria. La striscia di filo spinato è dotata di sensori che possono individuare movimenti sospetti a centinaia di metri e mettere in allerta le pattuglie. L’esercito iracheno ha presentato tre giorni fa, con grande spolvero, il primo tratto del sistema di sicurezza che servirà a controllare le infiltrazioni dei jihadisti dell’Isis dal deserto siriano. Rispetto a quattro anni fa, quando intere divisioni si erano squagliate e le colonne agli ordini di Abu Bakr al-Baghdadi marciavano su Baghdad, è un altro esercito, e un altro Paese. La vittoria sullo Stato islamico ha ridato orgoglio ed energia all’Iraq. La produzione di petrolio ha raggiunto il mese scorso i 4,1 milioni di barili, un record, e con le quotazioni a 80 dollari al barile anche le casse dello Stato si stanno riempiendo di nuovo. La stabilità Le forze armate ora sono equipaggiate con il meglio che arriva dagli Stati Uniti e dalla Russia. Carri Abrams e T-90, F-16 e Mig-29. Il premier Al-Abadi ha usato la lotta al terrorismo per mantenere l’equidistanza fra americani e russi, e fra iraniani e sauditi. E spera che il suo successore, chiunque sia, continui così. L’ottimismo ha contagiato anche le relazioni con i curdi. Dopo il referendum sull’indipendenza del 25 settembre scorso c’era stata una guerra interetnica a Kirkuk, ripassata sotto il controllo federale. Ma le tensioni si sono allentate con il passare dei mesi. L’indipendenza è stata archiviata, il blocco degli aeroporti e dei valichi di frontiera ritirato, Peshmerga e forze governative hanno anche lanciato questa settimana la prima operazione congiunta contro le nuove cellule dell’Isis nella provincia di Kirkuk. Baghdad, e i curdi, vogliono dare segnali di unità, perché la minaccia jihadista ha rialzato la testa, con rapimenti e raid notturni, fino all’uccisione di sei uomini delle forze di sicurezza, sequestrati e torturati. Il governo ha risposto con l’esecuzione, anticipata, di 12 condannati a morte per terrorismo. Un gesto sbrigativo teso a placare l’opinione pubblica inferocita. C’è la voglia di voltare una volta per tutte la pagina dell’Isis. Più a Sud, nella rovente estate mesopotamica, la maggior parte dei quartieri di Baghdad, per la prima volta da anni, hanno elettricità per 24 ore al giorno. Persino l’incendio del magazzino che conteneva milioni di schede da ricontare, per presunti brogli alle elezioni del 12 maggio scorso, una provocazione grave, si è risolto senza scontri. La paventata guerra civile fra le diverse fazioni sciite che ora si contendono il potere non c’è stata. Anzi, tutti parlano con tutti attorno al pivot Moqtada al-Sadr, vincitore a sorpresa, brogli o non brogli, della prima sfida elettorale del dopo-Isis. Il riconteggio parziale delle schede è cominciato lunedì e sarà monitorato da rappresentanti delle Nazioni Unite, diplomatici di vari Paesi e rappresentati dei partiti. Al-Sadr, non eletto in Parlamento, non può fare il premier nonostante il suo blocco elettorale, di un populismo islamico di sinistra che include anche il Partito comunista, abbia la maggioranza relativa con 54 seggi su 329. È il «king maker» e alla porta di casa sua bussano tutti. Anche il rivale Hadi al-Amiri, l’uomo di Teheran, amico del leader dei Pasdaran Qassem Suleimani, un secondo «king maker» in Iraq. Al-Sadr e Suleimani sono ai ferri corti da febbraio, quando il generale ha puntato su Al-Amiri. E ha perso la scommessa. Al-Sadr ha parlato anche con il premier Haider al-Abadi, che non è escluso rimanga in sella in un governo di compromesso. Ma il nome che potrebbe uscire dal cilindro è Dia Asadi, 49enne avvocato di Bassora, un «difensore dei diseredati» che piace molto ad Al-Sadr, spigliato, con un buon inglese e rapporti cordiali con tutti i diplomatici della capitale. Un nome nel segno dell’equidistanza.
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