Genocidio armeno: il primo a rivelarlo fu Henry Morgenthau Sr.
Commento di Giuliana Iurlano
Henry Morgenthau sr
1 milione di armeni sterminati dai turchi
Henry Morgenthau, Sr., un ebreo americano nato in Germania e nominato dal presidente Wilson ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli dal 1913 al 1916, fu il primo a parlare del genocidio armeno – “una decisione di stato calcolata a sangue freddo”, come ha sostenuto nel suo Diario, pubblicato 85 anni dopo la sua morte (H. Morgenthau, Diario 1913-1916. Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni, a cura di F. Berti e F. Cortese, Milano, Guerini, 2010) – e ad insistere, sul piano diplomatico, affinché si trovasse una soluzione umanitaria a quello che sarebbe stato il primo eccidio di massa di un popolo agli inizi del Novecento. Di fronte alle prove schiaccianti del massacro operato dai Giovani Turchi, egli rifiutò di comportarsi come uno spettatore distaccato, ma utilizzò in pieno la sua posizione – e i rapporti amichevoli che il suo paese aveva con l’Impero Ottomano – per cercare di fermare quel tragico processo noto con il nome di “Medz Yeghern”, il “Grande Male”, che causò la deportazione e la morte di circa un milione di armeni. Se è vero che la Shoah è un unicum, è però anche vero che il massacro degli armeni nel 1915 inaugurò il “secolo genocidiario” e che, come lo stesso Morgenthau avrebbe testimoniato nel suo Diario, vide già allora, come istigatore, il governo tedesco, il cui ambasciatore, il barone von Wangenheim, di fronte alla richiesta del suo collega americano, rifiutò categoricamente di intervenire a favore di quel popolo perseguitato con la famosa risposta: “Non farò nulla per gli armeni”. Morgenthau così avrebbe commentato: “Era l’unico uomo e il suo l’unico governo che potessero fermare questi crimini, ma, come mi disse molte volte Wangenheim, ‘il nostro obiettivo è vincere la guerra’”. Morgenthau venne informato nel corso degli eventi di ciò che stava accadendo da un alto funzionario ottomano, il quale gli confidò che il “trattamento” degli armeni era stato discusso in una seduta notturna dal Comitato per l’Unione e il Progresso, il partito dei Giovani Turchi, e che la decisione veniva “completamente giustificata [...] in considerazione dell’atteggiamento ostile degli armeni nei riguardi del governo ottomano”. Del resto, racconta l’ambasciatore americano, anche nei colloqui con Mehemet Talaat Pascià e con Ismail Enver – pur se spesso franchi e confidenziali, nonostante una generale evasività – vi era una esplicita ammissione dell’impegno a distruggere il popolo armeno, un impegno conseguente a “lunghe e ponderate decisioni”, un’iniziativa di cui Talaat si vantava, enfatizzando il fatto che il governo turco avesse “fatto in tre mesi più di quanto Abdul Amid [fosse] riuscito in trent’anni per risolvere il problema armeno”. Quella del governo turco, dunque, non era una novità, perché, fra il 1894 e il 1896, il sultano Abdul Hamid, proseguendo nella logica delle continue persecuzioni del popolo armeno, aveva già cercato di sterminarlo, senza riuscire a portare a compimento il suo progetto per l’opposizione congiunta di Francia, Inghilterra e Russia. Ciò costituisce, a ben vedere, una delle ragioni di quel “nervo scoperto” che impedisce ancora oggi alla Turchia di riconoscere apertamente quanto accaduto, proprio perché – nel mito fondante del nuovo Stato – la rivoluzione del Giovani Turchi avrebbe dovuto inaugurare l’epoca della modernità, tagliando nettamente i ponti col passato. L’ambasciatore americano, invece, protestò a viso aperto, forte delle informazioni di prima mano ricevute dai consolati locali statunitensi (in particolare, da Oscar H. Heizer da Trebisonda, Leslie A. Davis da Harput e Jesse B. Jackson da Aleppo) e soprattutto dai missionari americani e tedeschi che, già da molto tempo, vivevano nell’Impero Ottomano, una delle ragioni, questa, che avrebbe fatto ritardare la decisione di Wilson di entrare nella Grande Guerra al fianco dell’Intesa, prima e, poi, di approvare per tempo la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, nella speranza che la Turchia firmasse una pace separata ed uscisse la conflitto. Morgenthau, in realtà, non aveva alcun titolo per intervenire, perché la questione armena rientrava totalmente negli affari interni di un paese straniero, a meno che non mettesse a repentaglio la vita e gli interessi dei cittadini americani. Nonostante ciò, si affrettò ad informare il Dipartimento di Stato già nel luglio del 1915 che era in corso “una campagna di sterminio” e chiese al proprio governo un intervento di tipo umanitario. Nel frattempo, si diede da fare per convincere Talaat ed Enver ad abbandonare i loro nefasti progetti, facendo leva sul loro senso di umanità e sulle conseguenze economiche negative che la loro decisione avrebbe potuto avere. Si soffermò, in particolare, sulla debolezza argomentativa del concetto di colpa collettiva: “Supponiamo pure che alcuni armeni vi abbiano tradito. È questo un motivo sufficiente per sterminare l’intera razza? Per far soffrire donne e bambini innocenti?”, ma Talaat fu irremovibile. Per lui, lo sterminio era “inevitabile” e, come ebbe a dichiarare ad un cronista di un giornale tedesco, “Ci hanno accusato di non distinguere fra armeni colpevoli e armeni innocenti; ma ciò è impossibile, perché gli innocenti di oggi possono essere i colpevoli di domani!”. Morgenthau non riuscì a fermare il genocidio armeno, anche se, grazie a lui, fu creato il Near East Relief, che operò nella raccolta di fondi e nell’organizzazione di corridoi umanitari per soccorrere i superstiti. Oggi, grazie a Pietro Kuciukian, fondatore del Comitato Internazionale Giusti per gli Armeni, un pugno di terra della tomba di Henry Morgentau, Sr., sepolto nel cimitero ebraico di Mount Pleasant, è stato tumulato in Armenia nel gennaio 1999 accanto alle lapidi degli altri giusti non armeni, sulla Collina delle Rondini di Dzidzernagapert.
Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta