Riprendiamo da ITALIA OGGI del 29/06/2018, a pag.5 una parte dell'articolo di Diego Gabutti dedicato a Milena, l'amica di Kafka, in occasione dell'uscita del libro "Milena Jesenská. Qui non può trovarmi nessuno" pubblicato da Giometti e Antonello.
Diego Gabutti
Giornalista praghese, comunista fino al 1936, quando lo stalinismo trionfante nei Processi di Mosca guastò definitivamente la festa delle rivoluzioni e lei usci dal partito mentre in Europa già infuriava la tempesta, Milena Jesenská è la Milena delle Lettere a Milena di Kafka. È anche la Milena a cui Margarete Buber Neumann, autrice di Da Potsdam a Mosca. Tappe di una strada sbagliata, cioè del più straordinario memoriale mai scritto sull'età dei totalitarismi, dedicò una splendida biografia, Milena. L'amica di Kafka, dopo averla conosciuta nel lager di Ravensbruck, dove entrambe furono internate, e dove Milena Jasenská morì nel 1944, a quarantotto anni. Senza essere ebrea, ma spinta da un coraggio indomito e dall'indignazione, aveva cucito una stella gialla sui propri abiti quando gli hitleriani entrarono a Praga. Fu presa in parola e cacciata nei campi, «subumana» agli occhi dei disumanisti al potere. Qui non può trovarmi nessuno raccoglie molti suoi articoli, tutti bellissimi. Quello su Kafka, il suo antico spasimante, per esempio (di cui Milena capì l'essenziale, che si trattava cioè d'uno scrittore realista, e che le sue storie non erano allegorie né parabole ma la realtà tale e quale, senza fronzoli): «Kafka era timido, scrupoloso, tranquillo e buono, eppure ha scritto libri spietati e dolorosi. II suo mondo era popolato di demoni invisibili che annientano e dilaniano l'uomo privo di difese. Sono così veri, sinceri e dolorosi che persino là dove si esprimono per simboli appaiono naturalistici. Sono pervasi dall'ironia asciutta e dal sensibile stupore di un uomo che ha visto il mondo con tanta chiarezza da non poterlo sopportare. Egli era un uomo e un artista dotato di una coscienza tanto vigile che avvertiva qualcosa anche là dove gli altri, meno sensibili di lui, si sentivano al sicuro». Milena, come Kafka, aveva capito che c'erano incubi dai quali non ci si sarebbe svegliati tanto presto, e da cui forse non ci si sarebbe svegliati affatto. Incubi simili a quello raccontato in uno dei suoi articoli: «Non so dove fossi, in un luogo infinitamente lontano da casa. In America? In Cina? Da qualche parte, all'altro capo della terra, mentre l'intero pianeta era sconvolto da una guerra o da una peste, o dal diluvio universale. Della catastrofe in atto io non sapevo nulla di preciso». Non lo sapeva ancora, né lo sapeva di preciso, ma presto a Ravensbruck — «il più grande campo di concentramento femminile della Germania, un vasto serbatoio di manodopera schiava» — le torri di guardia e il filo spinato avrebbero sbarrato ogni via d'uscita (o, meglio, ogni possibilità di risveglio dall'incubo della storia) e tutto sarebbe stato chiaro.
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