Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/06/2018, a pag. 12/13 due interessanti servizi di Paolo Matrolilli e Matteo Indice, particolarmente inquietanti. Al Qaeda e Isis non erano state sconfitte?
Paolo Mastrolilli: " Gli Stati Uniti bombardano Al Qaeda in Libia "
Paolo Mastrolilli Al Qaeda in Libia
Gli Stati Uniti hanno rilanciato la campagna militare contro l’Isis e Al Qaeda in Libia, con due attacchi avvenuti durante l’ultima settimana, mentre in Afghanistan hanno ucciso il leader taleban che aveva ordinato l’assassinio di Malala Yousafzai. Lo US Africa Command (Africom) ha annunciato che «in coordinamento con il Libyan Government of National Accord, le forze americane hanno condotto un attacco aereo di precisione contro al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), uccidendo un terrorista». Il bombardamento è avvenuto mercoledì, circa ottanta chilometri a sud est della città di Bani Walid. Il 6 giugno scorso Africom aveva colpito sempre nella stessa zona, rivelando di aver ucciso quattro membri di un gruppo affiliato all’Isis. A marzo un drone aveva invece preso di mira i militanti di Al Qeada, nelle regioni meridionali della Libia. Sullo sfondo di queste operazioni, all’inizio di giugno il comandante di Africom, generale Thomas Waldhauser, era stato a Tripoli, per incontrare la leadership del governo di accordo nazionale. L’accelerazione Questa serie di eventi dimostra due fatti: primo, l’accelerazione della campagna militare americana in Libia, in sostegno dell’esecutivo di Tripoli, per contrastare il radicamento dei terroristi islamici; secondo, l’emergere della zona di Bani Walid come un punto di passaggio privilegiato da parte dei militanti. I raid Usa nell’ex colonia italiana non sono una novità. Erano cominciati durante l’amministrazione Obama, proprio allo scopo di contrastare i terroristi. Washington non voleva intervenire per la stabilizzazione politica del paese, delegando queste operazioni soprattutto all’Italia, ma agiva sul piano militare quando si trattava di fermare il jihadismo. Infatti nel 2016 il Pentagono aveva aiutato l’offensiva per scacciare l’Isis da Sirte, conducendo circa 500 bombardamenti. Nel 2017 queste operazioni sono continuate, limitandosi però a 12 raid. Nel 2018 finora c’era stato solo l’attacco di marzo, a cui ora sono seguiti i due raid degli ultimi giorni. La strategia resta quella di attaccare i terroristi, dell’Isis o di Al Qaeda, ma gli interventi favoriscono soprattutto il governo di Tripoli, con cui l’Italia ha da sempre un rapporto solido. Washington mantiene i contatti anche con la componente orientale guidata dal generale Haftar, però durante la sua visita alla Casa Bianca il premier Sarraj aveva ricevuto la conferma dell’appoggio dell’amministrazione Trump. I raid contro i terroristi proseguono anche in Afghanistan, dove nella regione di Kunar un drone ha ucciso Maulana Fazlullah, capo del gruppo pakistano Tehreek e Taliban, che nel 2012 aveva ordinato l’omicidio fallito di Malala Yousafzai.
Matteo Indice: " Rivolte in nome del Califfo nel supercarcere italiano: appena liberi colpiremo "
Matteo Indice Il carcere di Sassari
Il 7 gennaio scorso, nel supercarcere «Giovanni Bacchiddu» di Sassari, s’incrocia un gruppo di fondamentalisti islamici «tutti detenuti per associazione terroristica». Sono intercettati dalle cimici della polizia, che in un dossier riservato descrive così quel momento: «Qualcuno inizia a gridare “Allah akbar” e gli altri lo ripetono. Nel seguito della conversazione Nabil Benamir (arrestato in Liguria nell’agosto 2017 mentre studiava come colpire la folla con un camion, ndr) dice chiaramente: «Sono le 8 e 36, tre anni fa la strage di...». In effetti la ricorrenza è quella dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, ma la commozione non è per le vittime francesi, quanto per la morte di due dei responsabili del raid. Dopo alcune invettive contro l’Italia e i magistrati, Nabil prosegue leggendo un invito «ai sette dormienti» e ne discute con i presenti». Le ambientali nel penitenziario più delicato permettono di scoprire che, nei primi mesi del 2018, è stata domata una sollevazione di prigionieri inneggianti all’Isis e sventato un attacco a colpi di coltello contro un agente: emerge il 3 aprile, quando una conversazione generica svela che l’attetatore era stato «disarmato» da un compagno. “Puoi procurare armi?” I prigionieri promettono però di uccidere dopo la scarcerazione: «Italia maledetta, sgozzerò un italiano quando esco, ovunque mi troverò». Seguono in tv le notizie sui filojihadisti arrestati tra marzo e aprile, solidarizzando a distanza, confessano l’affiliazione al Califfato e la propria dimestichezza con le armi. «Uno mi chiese se gliene potevo procurare per il rientro al suo Paese», spiega in un verbale un ex membro della Sacra corona unita, che aveva incontrato brevemente un jihadista in un altro carcere. Le pene degli islamisti incarcerati in Italia non potranno essere troppo alte, essendo in custodia per indagini preventive e non su veri e propri attentati: «Al massimo ti danno 4, ti danno 5 anni - continua per esempio Benamir - poi da qualche parte torneremo, Isis tornerà... un’ora e mezza e sono in Spagna (dal Marocco, ndr) li vado a cercare uno a uno, ci sarà solo il coltello». Sono sottoposti a un regime di controllo straordinario, ma non al 41 bis e hanno qualche spazio di socialità. E leggendo queste intercettazioni, depositate dai poliziotti nell’indagine del pm Federico Manotti sul caso ligure, si capisce perché le carceri siano considerate così pericolose: il numero dei fanatici sotto massima sorveglianza è lievitato del 40% in un anno, da 365 a 506. Il 30 marzo alle 18 è quasi emergenza, al «Bacchiddu». Un detenuto, come provano le ambientali, ne minaccia un altro, A. Y., ritenendolo una spia: «Non hai mai usato un kalashnikov nella tua vita... la tua arma è la lingua...». L’autore delle successive e più crude intimidazioni subisce un provvedimento e a quel punto i compagni si ribellano: «La registrazione - precisa la polizia - conferma l’adesione all’ideologia di Daesh e circoscrive quasi una sollevazione (tra i partecipanti viene annotato il nome di Mouner El Aoual, marocchino arrestato a Torino nell’aprile 2017, ndr). Urlano a lungo in arabo e in italiano: “Lo stato islamico, Allah akbar, lo stato islamico e il jihad, lo stato islamico, Allah akbar, Allah akbar”. Declamano un inno intitolato “Siamo il popolo fedele a Maometto e verso il jihad ci incamminiamo”». E non mancano di rivolgersi agli agenti che contengono a distanza il marasma: «Hanno umiliato i musulmani questi ipocriti, il sangue il sangue il sangue... vi bruciamo vivi bastardi... se venite giù vi ammazziamo uno per uno... noi siamo degli uomini, viva l’Isis, via Abu Bakr al-Baghdadi, siamo arrivati e vi tagliamo la testa». “Ero un foreign fighter” Il 28 e 29 marzo un paio guarda il tg sull’arresto a Foggia del predicatore italo-egiziano Mohy Abdel Rahman, da cui gli studenti erano esortati a «colpire al collo i miscredenti». «Questo è Corano»,si dicono, poi inneggiano ad Allah e cantano insieme: «Abbiamo aperto Costantinopoli e manca Roma!». In un altro caso ripetono, urlando, le frasi pronunciate dall’attentatore turco e vicino ad Al Qaeda che nel dicembre 2016 a Istanbul uccise l’ambasciatore russo. «Talvolta - spiegano gli investigatori - gli inni oltranzisti sono condivisi da detenuti addetti al servizio mensa», ma non è sempre facile identificare singolarmente chi dice cosa. Le ambientali consentono pure di raccogliere confessioni, per esempio quando parla Noussair Louati, tunisino fermato il 22 aprile 2015 a Ravenna in partenza per il Medio Oriente: «Il maggior numero di persone andate dall’Italia in Siria si sono mosse da lì, è la capitale dei foreign fighter... io ero l’ultimo, grazie a una donna che ne aiutava altri».
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