Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/06/2018, a pag. 13, con il titolo "Guerra nello Yemen. Guerra nello Yemen della roccaforte sciita", il commento di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Le navi della Coalizione saudita-emiratina si sono mosse verso le spiagge ai margini meridionali di Hodeidah, la più grande città sul Mar Rosso dello Yemen, l’ultimo porto ancora in mano ai ribelli Houthi che dal febbraio 2015, quando hanno cacciato dalla capitale Sana’a il presidente legittimo Abdrabbuh Mansour Hadi, controllano lo Yemen del Nord. L’ultimatum ai guerriglieri sciiti era scaduto alla mezzanotte, il fuoco dell’artiglieria ha accompagnato la manovra marittima, mentre gli F-15 sorvolavano la città. Era l’inizio della battaglia di Hodeidah, la prima vera offensiva verso una grande città, gremita di abitanti e profughi, settecentomila persone, 300 mila bambini e ragazzi, già stremati dalla carestia. Una «Aleppo yemenita» che fa tremare i responsabili delle organizzazioni umanitarie e che rischia di essere persino peggio in termini di vittime, fino a «250 mila morti» nella più sciagurata delle ipotesi, stima l’Onu.
Terroristi Houthi filo-iraniani
I due fronti però sono irremovibili, hanno respinto le proposte dell’Inviato speciale Martin Griffiths: mettere la città e il porto nella mani di un contingente delle Nazioni Unite, permettere l’arrivo degli aiuti umanitari che tengono in vita 8,4 milioni di persone in tutto il Paese e allo stesso tempo stoppare ogni afflusso di armi verso i ribelli. Per gli Houthi, spalleggiati dall’Iran, come per l’Arabia Saudita ed Emirati arabi, la posta in gioco è troppo importante. Se cade Hodeidah, è il calcolo ad Abu Dhabi, il collasso degli insorti sciiti, senza più rifornimenti, sarà questione di mesi. La Coalizione «ha finito la pazienza», ha avvertito ieri il viceministro emiratino Anwar Gargash. Ma gli Houthi, eredi di un regno religioso durato mille anni, sono convinti di poter resistere con l’aiuto di Dio e dell’asse «della resistenza». Ieri hanno spostato combattenti dalle montagne e hanno bersagliato le colonne dell’esercito regolare yemenita con razzi e missili.
Un ordigno, secondo i media pro-Iran, ha colpito anche una nave saudita, circostanza non confermata da Riad. La flotta da sbarco ha dovuto ripiegare e l’assalto si è bloccato. Il problema della Coalizione è che, nonostante una potenza di fuoco soverchiante, difetta di fanteria. Le forze armate yemenite, sbrindellate dalla secessione e dai contrasti fra i pro-Riad e i pro-Abu Dhabi, contano ormai su poche migliaia di soldati, a cui si aggiungono rinforzi e mercenari sudanesi, pachistani, più gli ufficiali emiratini. Le truppe saudite sono impegnate al confine settentrionale, mentre gli 800 militari inviati dall’Egitto non partecipano ai combattimenti. Gli Houthi hanno perso almeno un terzo dei ranghi dopo la defezione dell’ex presidente Ali Abduallah Saleh, poi ucciso durante la fuga da Sana’a. Ma con l’arruolamento di ragazzini, anche di 14 anni, possono contare ancora su 30-40, forse 50 mila combattenti.
Il rischio di un lungo assedio è altissimo. All’allarme dell’Onu si sono uniti quelli di altre Ong. L’Unicef ha sottolineato come i 300 mila minorenni in città «sono i più a rischio». Il portavoce di Save the Children, Anas Shahari, dalla città ha parlato di «bambini affamati, così esausti che non riescono più a piangere». Oxfam, con il portavoce Paolo Pezzati, ha avvertito di una «catastrofe umanitaria» inevitabile, di «un orrore difficile da immaginare». L’inviato dell’Onu Griffiths è ancora al lavoro, oggi si riunisce il Consiglio di Sicurezza. Le pressioni internazionali, dei media, possono ritardare, forse fermare il massacro. Ma «l’Aleppo yemenita» incombe.
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