Ecco gli articoli:
La Stampa - Paolo Mastrolilli: "Nel patto Kim-Trump pace tra le Coree e meno militari americani nella penisola"
Paolo Mastrolilli
Donald Trump ha detto che «siamo pronti a scrivere un nuovo capitolo tra le nostre nazioni». Il problema ora sarà riempirlo di sostanza, perché il documento firmato ieri a Singapore con Kim appare come una dichiarazione di intenti, più che una mappa dettagliata del percorso da seguire verso la pace.
Lo storico vertice tra il presidente americano e quello nordcoreano è stato un successo per almeno tre motivi: primo, perché è avvenuto; secondo, perché allontana la prospettiva di una guerra; terzo, perché avvia un processo che potrebbe servire non solo a garantire il futuro della penisola, ma anche a fornire un modello per altre situazioni di crisi, come quella iraniana. La linea aggressiva di Trump avrebbe spiazzato Kim, convincendolo a cambiare. Il diavolo però sta nei dettagli, che devono ancora essere definiti, e nel rischio che alla fine gli Stati Uniti abbiano già concesso più di quanto riceveranno.
La firma
L’incontro si è concluso con la firma di un documento in quattro punti: primo, «Usa e Corea del Nord si impegnano a stabilire nuove relazioni», che significa anche mettere formalmente fine alla guerra degli Anni Cinquanta; secondo, puntano a creare «un regime stabile e duraturo di pace nella regione», che vuol dire pure garanzie di sicurezza e aiuti economici da parte degli Usa; terzo, «denuclearizzazione completa dell’intera penisola», che quindi implica concessioni militari anche da parte di Washington; quarto, «recuperare e rimpatriare i resti dei prigionieri di guerra e dei dispersi» nel conflitto tra il 1950 e il 1953.
Trump ha rivelato che come garanzia di sicurezza ha offerto a Kim la fine delle esercitazioni militari annuali con la Corea del Sud, «costose e provocatorie», e nel futuro desidera ritirare i 32.000 soldati americani presenti nella penisola. Entrambe mosse che hanno colto di sorpresa Seul e il Pentagono, e reso felice la Cina.
Le sanzioni
Le sanzioni economiche invece resteranno in vigore fino a quando non ci sarà la prova concreta della denuclearizzazione. Quindi il leader di Pyongyang ha ottenuto due cose concrete: la propria legittimazione politica, e lo stop ai «war games», come li ha chiamati il capo della Casa Bianca. In futuro, poi, riceverà aiuti economici. In cambio ha confermato l’impegno a rinunciare alle atomiche, avviando anche la distruzione di un sito per i test sui motori dei missili, e secondo Trump ha promesso di rispettare i diritti umani, di cui però non c’è traccia nel documento.
Se funzionerà, questo accordo potrebbe diventare il paradigma per risolvere anche il dilemma iraniano, e altre crisi. Il problema sta nel fatto che la Corea del Nord aveva già preso in passato impegni simili, ad esempio nel 1994, senza poi rispettarli. Le modalità e i tempi della denuclearizzazione non sono chiari, anche se Trump ha detto che «comincerà molto presto e non durerà 15 anni, come dicono certi esperti». I dettagli concreti andranno definiti attraverso le trattative che il segretario di Stato Pompeo riprenderà la settimana prossima.
I dubbi
Trump si è detto convinto che Kim abbia deciso di cambiare strategia, un po’ come quando Bush sosteneva di aver letto l’anima di Putin, ma ha ammesso che non può averne la certezza: «Può darsi che fra sei mesi verrò a dirvi di aver sbagliato, anche se non lo ammetterò mai e inventerò qualche scusa». Invece ha rivendicato il pugno di ferro usato contro il Canada e gli altri alleati occidentali al G7, perché «si approfittano di noi».
La chiave dunque sta nella sensazione personale del «maestro degli accordi», secondo cui da una parte c’è la sua amministrazione, che non è debole come quelle dei predecessori, e dall’altra un giovane leader che guarda al futuro e alla prosperità del proprio Paese con occhi diversi da quelli dei suoi padri. Magari con la benedizione essenziale della Cina. Se questa scommessa è giusta, la storia sta cambiando e produrrà un paradigma nuovo di pace. Se è sbagliata, meglio non pensare alle conseguenze.
IL FOGLIO - Eugenio Cau: "L’accordo di Trump è 'weak' in confronto a quelli dei predecessori"
Eugenio Cau
Accanto a molti commenti, orientati a criticare qualunque gesto o affermazione di Trump, il pezzo di Cau, è opportuno, isolato anche sul quotidiano su cui appare.
Roma. Kim Jong-un ha cercato di convincere Donald Trump che il loro incontro è materia di “film di fantascienza”, un evento così impensabile da costituire un unicum storico. E’ vero: è la prima volta che un presidente americano in carica stringe la mano a un dittatore nordcoreano della dinastia Kim – alcuni dei predecessori di Trump erano stati invitati a fare lo stesso, ma avevano rifiutato. Ma al di là del coreografico e del simbolico, i passi concreti fatti verso la denuclearizzazione sono un déjà-vu nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del nord. Quello siglato da Trump e Kim non è il primo accordo di massima stipulato per disinnescare la minaccia nucleare nordcoreana: nel 1994 Bill Clinton firmò un accordo simile e nel 2005 George W. Bush fece lo stesso. Non solo: secondo molti esperti, tanto Clinton quanto Bush erano riusciti a ottenere concessioni più rilevanti dal regime di Pyongyang di quanto non abbia fatto l’artista del deal Donald Trump. L’accordo siglato ieri a Singapore impegna la Corea del nord a “lavorare per raggiungere l’obiettivo della completa denuclearizzazione della penisola coreana”. L’aggettivo “completa” può sembrare forte, ma quello che lo precede – “lavorare per raggiungere” – indi - ca che Kim non ha davvero promesso la denuclearizzazione: ci lavorerà e vedrà cosa si può fare. Inoltre, la definizione di “denuclearizzazione della penisola coreana” è ambigua, ed è spesso stata usata da Pyongyang per pretendere l’eliminazione della presenza militare americana in Corea del sud – cosa che Trump, parlando in conferenza stampa con i giornalisti, non ha escluso. L’accordo, inoltre, non parla di verificare come questa denuclearizzazione sarà svolta, non cita i diritti umani né il programma missilistico nordcoreano – non c’è stato il tempo per i dettagli, ha detto Trump. Ancora il mese scorso, il dipartimento di stato americano diceva che la dottrina dell’Amministrazione sulla Corea del nord si riassumeva nell’acronimo CVID: “completa, verificabile, irreversibile denuclearizzazione”. Poco di questa durezza sembra essere rimasto nel vago documento di Singapore. L’accordo stipulato con l’Amministrazione Clinton nel 1994 fu il risultato di un colpo di mano simile a quello degli scorsi mesi: i negoziati cominciati nel 1992 tra Stati Uniti e Corea del nord stavano per fallire, Clinton era sul punto di ordinare l’evacuazione di tutti i cittadini americani dall’intera penisola e stava preparando piani di guerra, quando l’ex presidente Jimmy Carter volò a Pyongyang quasi di sorpresa per incontrare Kim Il-sung, il nonno dell’attuale dittatore. L’accordo che ne derivò, il cosiddetto “Agreed Framework”, era piuttosto dettagliato: Pyongyang accettava di smantellare i propri reattori moderati a grafite e di far entrare gli ispettori internazionali nelle sue strutture; in cambio, gli Stati Uniti promisero di costruire per i coreani due reattori ad acqua leggera, molto meno pericolosi in termini di proliferazione, e di sostenere l’economia con spedizioni di petrolio. L’accordo fallì a causa della ritrosìa del Congresso, ma soprattutto perché Pyongyang, nonostante le promesse, non smise mai di lavorare segretamente alla Bomba. Davanti a un precedente simile, quando nel 2003 ripresero i contatti per un nuovo tentativo di accordo, l’Amministrazione Bush ottenne, in quello che fu il comunicato finale dei cosiddetti Dialoghi a sei siglato nel 2005 (parteciparono anche Corea del sud, Cina, Giappone, Russia), concessioni del tipo: “La Corea del nord si impegna ad abbandonare tutte le armi nucleari e i programmi nucleari esistenti”. La denuclearizzazione doveva essere “verificabile”. Pyongyang si era impegnata a rientrare “nel Trattato di non proliferazione nucleare e sotto le tutele dell’Aiea”. L’accordo era stato pensato in modo che non ci fossero immediatamente concessioni esagerate, ma sulla base di un sistema di “pro - messa per promessa, azione per azione”. Insomma: nel 2005 Bush aveva ottenuto molto di più dalla sua controparte rispetto alle promesse fatte da Kim a Trump. Eppure, anche questo accordo fallì, in parte per il sabotaggio dei falchi dell’Amministrazione (c’era John Bolton tra loro) e in parte perché Pyongyang non aveva mai avuto intenzione di chiudere il suo programma nucleare, e pochi mesi dopo la firma già testava nuovi missili balistici. Intorno a questi due capisaldi nei rapporti bilaterali (Clinton 1994 e Bush 2005), molti altri comunicati, dichiarazioni, deliberazioni hanno predicato la denuclearizzazione e sono falliti. E’ da trent’anni che gli Stati Uniti ricevono promesse da Pyongyang, e sono state tutte più dettagliate e vincolanti di quella ottenuta da Trump. Allora cosa rende il presidente americano così certo del successo? Si fida del dittatore nordcoreano. E se si sbagliasse?, ha chiesto un giornalista ieri in conferenza stampa. “Potrei sbagliarmi. Cioè, potrei trovarmi di fronte a voi tra sei mesi e dire, ‘Ehi, mi sbagliavo’”, ha detto Trump. “Ma non penso che lo ammetterò mai, farò in modo di trovare qualche scusa”.
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