Gaza: i commenti che disinformano Fulvio Scaglione, Vittorio Emanuele Parsi
Testata:Famiglia Cristiana - Panorama Autore: Fulvio Scaglione - Vittorio Emanuele Parsi Titolo: «Terra Santa in fiamme - Teheran val bene un'Europa»
Riprendiamo oggi, 17/05/2018 da FAMIGLIA CRISTIANA, a pag. 16, il commento di Fulvio Scaglione "Terra Santa in fiamme"; da PANORAMA, a pag. 54, il commento di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo "Teheran val bene un'Europa".
Il FATTO QUOTIDIANO pubblica oggi il consueto pezzo di disinformazione di Roberta Zunini, che non vale la pena riprendere, che si dilunga sulle difficili condizioni di Gaza, ma omette le enormi responsabilità dei terroristi di Hamas.
Molto simile l'articolo a pag. 1 dell' OSSERVATORE ROMANO, che ripete fino all'ossessione il mantra dei "poveri palestinesi".
Ecco gli articoli, preceduti dai nostri commenti:
FAMIGLIA CRISTIANA - Fulvio Scaglione: "Terra Santa in fiamme"
Il peggior articolo che oggi disinforma contro Israele è quello di Fulvio Scaglione, che sostiene l'ipotesi, del tutto antistorica, di una "Gerusalemme città aperta" perché culla delle tre grandi religioni. Perché non proporre allora, analogamente, anche la Città del Vaticano o la Mecca come città aperte, cosa che nessuno si sogna di fare? Scaglione insiste poi sui presunti "crimini" dell'esercito israeliano, accusato di ogni nefandezza. Per concludere, Scaglione riprende pedissequamente le risoluzioni Onu contro Israele, che considera testi attendibili e di inoppugnabile valore. Il risultato è un pezzo di completa disinformazione. Un consiglio alle famiglie cristiane: evitare con cura la lettura di questo settimanale.
Ecco il pezzo:
Fulvio Scaglione
Due cose si perdono con grande facilità in Medio Oriente: le occasioni e le lezioni. Sulla questione di Gerusalemme si incartarono, nel 2000, a Camp David, nei colloqui convocati da Bill Clinton, sia Yasser Arafat sia Ehud Barak. Né il leader palestinese né il premier israeliano, dopo mille mosse tattiche, ebbero il coraggio di accettare per la Città Santa quella "sovranità condivisa" che avrebbe potuto disinnescare tante tensioni e avviare un dialogo reale, concreto, quotidiano. Tutto andò a monte, all'insegna del motto "O accordo su tutto o nessun accordo" che rappresenta a perfezione la cancrena dei rapporti tra israeliani e palestinesi. L'occasione andò persa e non si è più ripresentata. Anzi: di strappo in strappo siamo arrivati alla strage, agli oltre cento palestinesi uccisi in queste settimane dai soldati di Tsahal, mentre i ministri della tanto celebrata "unica democrazia del Medio Oriente" lietamente proclamano che «chiunque si avvicini al confine con Israele sarà ucciso». Si badi bene: non arrivi o superi, si avvicini. Ovvero, i dimostranti di Gaza saranno uccisi anche mentre si trovano sul loro territorio. E qui c'è la seconda follia, non imparare mai le lezioni del passato. Gli atti d'imperio in Medio Oriente diventano con grande facilità tragedie. In Iraq, in Libia, in Siria, in Afghanistan, in Turchia. Perché la Palestina e Israele dovrebbero fare eccezione? Donald Trump, o chiunque governi gli Usa in questa fase, ha deciso di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Per compiacere la destra cristiana che tanto conta nel suo elettorato, ma soprattutto per invertire il possibile collasso dell'influenza Usa in Medio Oriente. I tragici pasticci in Afghanistan e Iraq, lo schiaffone preso in Siria (dove Washington aveva benedetto il tentativo dei Paesi del Golfo di liquidare Assad e il suo dominio attraverso l'Isis e Al Nusra e dove invece ora si trova non solo Assad, ma anche la Russia), il fallimento del piano per soffocare l'Iran degli ayatollah, che invece di giorno in giorno allarga la propria presenza, i difficili rapporti con l'ex vassallo turco Erdogan, richiedevano una reazione. Eccola. All'Arabia Saudita, amica di molti terrorismi, forniture di armi e copertura politica. A Israele in regalo la più clamorosa violazione del diritto internazionale che la storia ricordi. Secondo le Nazioni Unite (Risoluzioni del 1971,1980,1993,1997) e la Corte internazionale di Giustizia (2004), Gerusalemme Est è "territorio occupato" dove Israele è la "potenza occupante". Gerusalemme deve restare una città condivisa con un'amministrazione internazionale diretta dall'Onu. Con la sua mossa, Trump sdogana l'annessione israeliana di Gerusalemme Est e, per logica conseguenza, quella di tutti i Territori palestinesi occupati da Israele dal 1967 (Guerra dei Sei giorni) a oggi. Come le decine di morti dei giorni scorsi dimostrano, dopo aver cancellato ogni ipotesi di trattativa e ogni prospettiva di arrivare un giorno a uno Stato palestinese, Washington e Gerusalemme sembrano aver deciso che è arrivato il momento giusto per schiacciare i palestinesi, relegandoli in una serie di riserve indiane scollegate tra loro e in tutto dipendenti dalla buona volontà delle forze armate israeliane. Ha senso? Ovviamente no. Quattro milioni di palestinesi della Cisgiordania e di Gaza non possono sparire e nemmeno essere eliminati. Israele non vuole i due Stati e nemmeno vuole integrarli nell'unico Stato ebraico. Nel frattempo, regala al cinismo di Hamas, sempre pronto a mandare a morire i suoi giovani, l'esasperazione popolare e, tramite questo, prepara lo scontro assai più vasto con l'Iran, che di Hamas è tornato a farsi sponsor e protettore. Conviene a Israele? Agli Usa? Al Medio Oriente? Conviene ai 128 Paesi che all'Assemblea Generale Onu, condannarono la mossa di Trump e oggi preferiscono tacere? C'era anche l'Italia, nel gruppo. Ma a noi, forse, basta il Giro d'Italia.
PANORAMA - Vittorio Emanuele Parsi: "Teheran val bene un'Europa"
Vittorio Emanuele Parsi torna a difendere l'accordo voluto da Europa e Obama con l'Iran degli ayatollah. I suoi argomenti sono per lo più economici - business is business - ma non perde occasione per attaccare Trump e soprattutto il governo israeliano, a sua detta responsabili di "aver infiammato la regione", mentre il terrorismo islamico passa completamente sotto silenzio. Parsi , oltre a scrivere sul Sole24Ore, insegna alla Cattolica, poveri studenti! Stupisce che non sia ancora stato invitato dall'università Bir Zeit nei territori palestinisti a tenere un corso!
Ecco il pezzo:
Vittorio Emanuele Parsi
La politica estera di Donald Trump può piacere o non piacere, anche se va detto che i critici continuano a essere più numerosi (e con «qualche» ragione) degli ammiratori. Ma è difficile non constatare come la sua guida solitaria petto agli alleati produca una costante riduzione della leadership americana. Il presidente sembra non curarsene, convinto che i futuri successi basteranno a più che compensare la carenza di convinta adesione alle sue visioni. Lo si vede in Israele, dove il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme sta infiammando la regione; e lo si è visto nella gestione della crisi nordcoreana. Le minacce urlate, le uscite scriteriate e persino incredibili («dite a Kim che ho un pulsante nucleare più grosso del suo!») hanno, per ora, prodotto un ammorbidimento delle posizioni del dittatore nordcoreano e raggiunto l'obiettivo imprevedibile di un incontro tra i presidenti delle due Coree e il 12 giugno addirittura uno storico meeting tra Kim Jong-un e lo stesso Trump. Se Kim rinuncerà davvero alla «bomba», entrambi i contendenti avranno portato a casa il loro risultato: il nordcoreano il riconoscimento internazionale del suo regime, l'americano lo smantellamento di una minaccia alla sicurezza americana e della regione dell'Asia-Pacifico, oltre alla rivitalizzazione del trattato di non proliferazione nucleare. Proprio quest'ultimo invece rischia di essere seriamente danneggiato dalla decisione ancora una volta unilaterale del presidente americano di denunciare il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) stipulato dai cinque grandi più la Germania nel 2015 insieme a Iran e Unione europea, avvenuto nonostante l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) continui a ribadire che la Repubblica islamica si sia strettamente attenuta al rispetto delle sue obbligazioni previste dal Trattato. Le nuove sanzioni americane costeranno parecchio all'Iran, ma sono un danno anche per l'Europa e in generale per l'economia internazionale, surriscaldando il prezzo del petrolio oltre che una situazione mediorientale che non può certo definirsi tranquilla. Trump ha adottato la sua decisione pochi giorni dopo lo show di Benjamin Netanyahu, una riedizione grottesca di quello interpretato da un imbarazzato Colin Powell di fronte Consiglio di sicurezza dell'Onu prima dell'invasione dell'Iraq nel 2003, e ha incontrato il plauso scontato del governo di Tel Aviv oltre che delle capitali arabe sunnite. Ma ha ricevuto reazioni molto negative da parte dei leader europei e del commissario Ue Federica Mogherini. Come al solito, infatti, queste sanzioni colpiranno chiunque, americano o meno, continuerà a intrattenere relazioni commerciali con Teheran. Si riprodurrà lo schema delle pluridecennali sanzioni contro Cuba (che qualcuno dei consiglieri del presidente vorrebbe reintrodurre) , per cui uno solo decide da solo che cosa vuol fare, ma i costi poi li devono pagare tutti. La reazione europea, dicevamo, è apparsa fin qui risoluta, anche perché l'impennata dei prezzi del petrolio, con tutte le ripercussioni prevedibili, insieme al venir meno delle prospettive dei lucrosi affari legati al riammodernamento delle infrastrutture persiane, rischia di affossare la già timida e rallentata ripresa delle economie del Vecchio continente. Se poi consideriamo gli effetti delle sanzioni russe e quelli dei dazi su alluminio e acciaio c'è abbastanza di cui preoccuparsi. Nella sua testa Trump sembra aver risolto il classico, eterno, «dilemma dell'egemone»: tra il perseguimento degli interessi strettamente nazionali della potenza leader e quelli della coalizione che ne deriva e ne assicura l'egemonia: evidentemente a favore degli interessi americani, sempre e sistematicamente. Ma la «socializzazione dei costi» a danno degli alleati e a fronte di decisioni tanto unilaterali quanto non condivisibili - dai dazi alle sanzioni, passando per l'esportazione dei costi delle ricorrenti crisi di cattiva governance del sistema finanziario americano (si pensi alle cause della crisi del 2007) - oltre a essere inaccettabile per gli europei, minaccia in realtà di erodere la solidità della rete di alleanze consolidate degli Stati Uniti e di lasciarli più soli proprio quando il network delle pluridecennali relazioni di Washington è il vero e sempre più necessario punto di forza e di differenza rispetto ai rivali russi e cinesi.
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