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Il Foglio Rassegna Stampa
17.05.2018 Gaza: i commenti che informano 3
Commenti di Giuliano Ferrara, Giulio Meotti, Daniel Mosseri

Testata: Il Foglio
Data: 17 maggio 2018
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara - Giulio Meotti - Daniel Mosseri
Titolo: «Chi ha a cuore la vita di Israele non può cedere al sentimentalismo sospetto dichiarandosi né con Netanyahu né con Hamas - La Nakba dell’opinione pubblica. Catastrofe Israele, sempre più solo - Medio oriente in crisi»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/05/2018, a pag.1 con il titolo "Chi ha a cuore la vita di Israele non può cedere al sentimentalismo sospetto dichiarandosi né con Netanyahu né con Hamas", il commento di Giuliano Ferrara, con il titolo "La Nakba dell’opinione pubblica. Catastrofe Israele, sempre più solo ", il commento di Giulio Meotti; con il titolo "Medio oriente in crisi", il commento di Daniel Mosseri.

Ecco gli articoli:

Giuliano Ferrara: "Chi ha a cuore la vita di Israele non può cedere al sentimentalismo sospetto dichiarandosi né con Netanyahu né con Hamas"

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Giuliano Ferrara

Il senso politico del tiepido appello firmato da persone stimabili come Anna Foa e Wlodek Goldkorn, fra gli altri, è purtroppo nudo e crudo: né con Netanyahu né con Hamas. Le motivazioni, trattandosi di persone che non hanno venduto il cervello all’ammasso dell’odio per il “colonialismo” o “l’apartheid” israeliano, sono evidentemente sentimentali. Lo spettacolo di un esercito regolare che tira su civili ai confini tra uno stato che ha la sua forza, la sua opulenza, la sua grinta, e una striscia di terra popolata dai fantasmi, donne vecchi bambini giovani, dove terrore fame disperazione sono legge del quotidiano, è in sé ributtante. Prova un sentimento di sconforto davanti agli eventi e alle vittime anche chi diffida delle retoriche pseudodavidiche, la fionda contro il Goliath, i miserabili che hanno sempre ragione per la loro vulnerabilità intrinseca, anche chi giudica matura la decisione americana di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme capitale d’Israele, in esecuzione di un impegno del Congresso che risale a molti anni fa, sebbene le cerimonie mondane per una targa ufficiale avessero qualcosa di stucchevole e di aspramente intollerabile, data la situazione, e davvero sarebbe stata preferibile l’asciuttezza del fatto al posto della versione colorita del taglio del nastro. Questo sentimento, spero lo si possa riconoscere in ragione della comune umanità, non ha niente di disdicevole, e non va confuso con la tronfia e ideologica sicumera “de sinistra” di un Massimo D’Alema, politico fallito e in cerca di riconoscimento ideologico che mette la politicuzza al posto della pietà, lui, notorio partigiano di Hezbollah e di un filopalestinesimo ideologico contraffatto. Ma i sentimenti sono la forza del cuore, le cui ragioni non si possono disconoscere, e la debolezza della ragione, che è la sola risorsa possibile per le grandi questioni politiche di vita o di morte, per popoli individui e stati o comunità. Giulio Meotti ha mille volte, e anche ieri qui, raccontato che cos’è un confine come quello di Gaza, mettendosi dal punto di vista di una comunità minacciata dal nichilismo e dal propagandismo terrorista, dalla esplicita volontà di annientare, e con la massima brutalità, chi ha diritto a vivere in pace e sicurezza nel focolare nazionale degli ebrei, persone e non princìpi astratti. Yossi Klein Halevi nel Corriere ha parlato con amarezza e rassegnazione politica del ciclo di negazione di cui sono prigionieri gli attori del conflitto, senza nascondere la circostanza decisiva: la negazione storica dirimente è quella che investe in pieno, in una logica di vita o di morte, lo stato di Israele, i suoi confini, le sue case, le sue città, le sue anime, i suoi corpi, la sua democrazia, il suo sforzo eroico di costituirsi come estremo baluardo di un sogno millenario e di un progetto politico moderno legittimato anche dalla comunità internazionale all’atto della nascita di quel paese. La fionda contro il cecchino eccita il sentimento, confonde le cose, rovescia gli istinti di protezione e la stessa saggezza del giudizio, ma l’assedio tenace e annientatore di un esperimento di storia e di vita, di libertà e di indipendenza, di rifugio e di autodifesa, quello chiama in causa la ragione o, se vogliamo essere meno monumentali, una ragione. Chi se ne fotte del Sionismo, chi non crede che Israele sia un diritto convalidato dalla storia e dalla più inaudita catastrofe, quali che siano state le sofferenze patite da una parte e dall’altra della storia stessa, ha tutto lo sporco diritto di credere che Gaza è un simbolo di resistenza e Israele di repressione. Chi ha l’esistenza e la pace di Israele incardinate nella ragione, e forse anche nel cuore, non ha il diritto di cedere al sentimentalismo univoco e sospetto, e di dichiararsi, quanto a conseguenze politiche, né con Netanyahu né con Hamas. E’ peggio che un delitto, è un errore. Di cui sono gli israeliani, e anche gli arabo-palestinesi disperati, a sopportare le vere conseguenze.

Giulio Meotti: "La Nakba dell’opinione pubblica. Catastrofe Israele, sempre più solo"

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Giulio Meotti

Roma. Dopo i tragici scontri che a Gaza sono costati la vita a 62 palestinesi (ieri un ufficiale di Hamas, Salah Bardawil, ha detto in tv che cinquanta delle vittime erano membri del gruppo terroristico), si è consumata una serie di crisi diplomatiche. Mentre l’African National Congress, il partito al potere in Sudafrica, paragonava Israele al nazismo, la Turchia umiliava all’aeroporto di Ankara l’ambasciatore israeliano appena espulso. Su Gaza si consuma però anche un’altra rottura fra Israele e l’opinione pubblica europea. La Süddeutsche Zeitung, il quotidiano più venduto in Germania (un milione di copie), ha pubblicato una vignetta con un Benjamin Netanyahu dalle grandi orecchie e il nasone, vestito come Netta Barzilai e in stivali militari, in mano ha un missile, la stella di David al posto della “V” di Eurovision e una nuvoletta che recita “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Dopo il clamore, il giornale ieri ha pubblicato le scuse firmate dal direttore Wolfgang Krach, secondo cui la vignetta è stata un “errore”. Cambiando paese e quotidiano, il Guardian è uscito il giorno dopo i fatti di Gaza con una vignetta di Steve Bell. Si vede un carro armato israeliano che va a pesca, salvo che nella rete al posto dei pesci ci sono decine di corpi di palestinesi.

Il Volkskrant, uno dei più importanti giornali olandesi, ha pubblicato la vignetta di un soldato israeliano che indossa occhiali da sole e una stella di David, spara contro masse inermi di palestinesi sul confine di Gaza per celebrare i 70 anni dell’indipendenza dello stato ebraico. Dopo aver messo un palestinese disarmato al muro, l’israeliano spara una raffica per scrivere “Buon compleanno a me”. Poi una pila di cadaveri di dimostranti massacrati. “Nakba, il disastro dei palestinesi” titolava ieri la Deutsche Welle, l’emitten - te pubblica tedesca. L’Irish Times, uno dei più quotati giornali irlandesi, pubblicava un editoriale di Omar Barghouti: “Il boicottaggio di Israele è la miglior risposta alle uccisioni illegali israeliane”. In Francia, il settimanale Nouvel Obs aveva un editoriale sul “massacro dei dimenticati”. A Cannes intanto l’attrice franco-libanese Manal Issa sul tappeto rosso della Croisette brandiva a favore delle telecamere di tutto il mondo un cartello con scritto “fermate gli attacchi su Gaza”. Mentre il sindaco di Barcellona, Ada Colau, chiedeva un embargo militare contro Israele, sui social diventavano virali le foto che accostano Gaza ad Auschwitz e a Soweto, sede della famosa rivolta dei neri sudafricani. Intanto la poetessa Shailja Patel scriveva: “La resistenza palestinese non è diversa dalla resistenza francese e olandese e polacca all’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale. La Grande Marcia del Ritorno (a Gaza, ndr) è analoga alla rivolta dei ghetti di Varsavia contro l’Olo - causto inflitto dai nazisti”. Nel frattempo manifestazioni con migliaia di persone si svolgevano in diverse città francesi. A Lione, Marsiglia, Bordeaux e Rouen, dove si è protestato in silenzio fuori della cattedrale. A Parigi si sono ritrovate vicino l’ambasciata israeliana: “Macron, sanzioni, non discorsi!”, urlava la folla calpestando la foto del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il settimanale francese Point, che non è mai stato un baluardo del sentimento antisraeliano, ha pubblicato in homepage il seguente sondaggio: “La comunità internazionale è troppo tollerante nei confronti di Israele?”. Il Journal du Dimanche ne aveva un altro: “La Francia dovrebbe richiamare l’ambasciatore in Israele?”. Intanto il sindaco di Dublino, Mícheál Mac Donncha, lanciava il boicottaggio dell’Eurovision del 2019, che si terrà proprio in Israele, e anche in Islanda si raccoglievano decine di migliaia di firme in tal senso. In Olanda, attivisti filopalestinesi vandalizzavano intanto il monumento alla Shoah a Utrecht con della vernice rossa. Si scendeva per strada anche a Oslo, per manifestare di fronte al Parlamento norvegese e all’am - basciata israeliana. “Israele celebra i 70 anni uccidendo 62 palestinesi”, scandivano i manifestanti, fra cui parlamentari socialisti come Petter Eide. Intanto, mentre la Norvegia stabiliva che è legale boicottare selettivamente le merci israeliane da parte dei consigli comunali, tre navi della Freedom Flotilla lasciavano il porto svedese di Göteborg dirette a Gaza per esprimere “solidarietà agli assediati”. La flottiglia è guidata da un peschereccio di nome al Awda (“il ritorno” in arabo) e farà sosta nei porti di Danimarca, Germania e Paesi Bassi. Intanto, all’Onu, Germania, Francia e Inghilterra si smarcavano dagli Stati Uniti chiedendo una “inchiesta indipendente” su Gaza. Tira una brutta aria in occidente. Di abbandono del popolo ebraico.

Daniel Mosseri: "Medio oriente in crisi"

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Daniel Mosseri

Berlino. Raggiungere l’ambito accordo di pace definitivo con i palestinesi, quello a 360 gradi su confini, rifugiati e status di Gerusalemme, resta una priorità ma non è più all’ordine del giorno. E’ una contraddizione solo apparente quella che Kobi Michael, stratega israeliano e ricercatore dell’Institute for National Security Studies, illustra nel corso di un’intervista concessa al Foglio e al canale all news tedesco Ntv. All’obiettivo si potrà arrivare fra una generazione: il ritardo che non dipende né dall’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme né dai recenti scontri lungo il confine fra Israele e la Striscia di Gaza. “E’ la frammentazione del sistema palestinese che ci pone davanti a problemi irrisolvibili imponendo invece obiettivi più modesti”. Per Michael torna d’attualità la road map del 2002: un passo alla volta per instaurare un’atmosfera migliore fra le parti e mettere i figli degli antagonisti di oggi nella condizione di arrivare alla pace domani. Prima però occorre fare chiarezza, premette l’ex vicedirettore del ministero israeliano per gli Affari strategici. “Il trasferimento dell’ambasciata americana non è un ostacolo alla pace e la percezione che se ne ha è ampiamente sbagliata”.

Michael ricorda che la nuova rappresentanza degli Stati Uniti, inaugurata lunedì, ha sede a Gerusalemme ovest, “un settore della città che non è mai stato sul tavolo negoziale né mai lo sarà”. Lo stesso Donald Trump ha detto che la nuova ambasciata non implica nulla in termini territoriali poiché la definizioni dei confini resta in mano alle parti negoziali. Certo, osserva l’ex negoziatore di Oslo, i tempi in cui l’ex premier Ehud Olmert offriva ai palestinesi il controllo di Gerusalemme est non sono destinati a tornare. Ma, di rifiuto in rifiuto, la dirigenza palestinese di al Fatah, che controlla la Cisgiordania, si è isolata anche in seno al mondo arabo. “Alcuni giorni dopo l’annuncio di Trump sull’ambasciata, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha convocato il capo dell’Autorità palestinese Abu Mazen proponendogli Ramallah come capitale. Poi, a Riad, il principe ereditario Mohammed bin Salman ha fatto lo stesso con il villaggio di Abu Dis, fuori Gerusalemme”. Con l’esclusione della Turchia e del Qatar, espressioni del cosiddetto islam politico, tutto il mondo arabo moderato è allineato con gli Stati Uniti, osserva Michael, sancendo così anche la poca credibilità di al Fatah e del suo leader Abu Mazen, “che con il suo discorso del 30 aprile (sugli ebrei che si sono meritati lo sterminio, ndr) ha dimostrato la sua piena irrilevanza politica”. Dall’altra parte, nella Striscia di Gaza, c’è Hamas che investe ogni risorsa in capacità militare, distogliendo materiale destinato ai palestinesi che i circa mille camion in arrivo giornalmente da Israele scaricano al confine con Gaza. “Quando non rubano a scopi militari lo fanno per le loro famiglie”, prosegue l’analista nel definire quello di Hamas un approccio molto cinico: “Non hanno alcun problema a sacrificare le persone”. Ciò non toglie che dopo l’apice delle violenze di queste ore a Gaza, “Hamas deve rivalutare la propria posizione” e Michael non esclude che, grazie al leader pragmatico Yahya Sinwar, il movimento islamico possa arrivare a firmare una tregua con lo stato ebraico. Comunque vada, il ritorno di al Fatah a Gaza è un’illusione, come lo è il ritorno delle due parti a un accordo politico. Allo stesso tempo, dialogando con un attore palestinese, Israele indebolisce l’altro, in un circolo vizioso di instabilità, “e intanto da due anni a questa parte i sondaggi dicono che il 70 per cento dei palestinesi è scontento delle due formazioni e vorrebbe un ricambio”. La guerra in Siria e la guerra per procura fra sciiti e sunniti in tutta la regione hanno poi contribuito a fare ombra alla questione palestinese. Anche per Israele la minaccia iraniana resta quella principale. E se le forze di Teheran e legate agli iraniani dovessero attaccare ancora dal confine siriano, per Kobi Michael la risposta israeliana dovrebbe arrivare a un’ampia offensiva di terra e al rovesciamento del rais di Damasco, Bashar el Assad. Il regime alauita oggi è l’anello che unisce l’Iran alla Siria e al Libano, e l’espulsione delle truppe iraniane dal suolo siriano è una priorità per Gerusalemme. L’instabilità che i pasdaran iraniani portano sul confine siro-israeliano preoccupa anche la Russia, che non è in Siria per scatenare la guerra a Israele. Ecco per Michael spiegata l’accoglienza in pompa magna che Vladimir Putin ha concesso a Bibi Netanyahu in occasione della parata per il giorno della vittoria: “Gli interessi di Mosca e Teheran stanno entrando in contrasto”.

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