Paolo Mastrolilli
Il presidente Trump, come suo genero Jared Kushner e il premier israeliano Netanyahu, ha definito l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme un passo che avvicina la pace, perché «riconosce la realtà». Le immagini della cerimonia nell’ex consolato, però, si sono sovrapposte a quelle delle violenze a Gaza, dove oltre cinquanta palestinesi sono morti.
La linea della Casa Bianca
Il capo della Casa Bianca è intervenuto via video, rivendicando lo spostamento dell’ambasciata come una presa d’atto della realtà: «Israele è una nazione sovrana, e come tale ha il diritto di determinare la sua capitale». Trump però ha detto che resta impegnato a «facilitare un accordo di pace durevole», perché la sua scelta non determina il futuro di Gerusalemme o dei luoghi discussi, come la spianata dei templi. Quindi ha concluso «tendendo una mano amichevole a Israele, i palestinesi e tutti i loro vicini». Il genero Kushner ha esaltato il suocero, dicendo che «il presidente Trump mantiene le promesse, come ha fatto uscendo dall’accordo nucleare con l’Iran».
Quindi ha puntato il dito contro quelli che la Casa Bianca considera i responsabili degli scontri a Gaza, cioè i militanti di Hamas: «Coloro che provocano la violenza sono parte del problema, non della soluzione». Invece lui, incaricato dal suocero di presentare un piano per rilanciare i negoziati, vede ancora una via d’uscita: «Credo che la pace sia a portata di mano. Se abbiamo il coraggio di credere che il futuro possa essere diverso dal passato». Netanyahu ha detto che «verità e pace sono interconnesse. Una pace costruita sulle bugie si sfascerà sulle rocce della realtà mediorientale. Puoi costruire la pace solo sulla verità. E la verità è che Gerusalemme è stata, e sarà sempre la capitale del popolo ebraico. La capitale dello Stato ebraico. Siamo a Gerusalemme per restarci».
Le reazioni
Le reazioni internazionali sono state opposte. Il presidente francese Macron ha condannato le violenze a Gaza, e il ministro degli Esteri Le Drian ha detto che lo spostamento dell’ambasciata viola le leggi internazionali. La Gran Bretagna ha dichiarato che non seguirà l’esempio di Washington, mentre la Russia teme che scatenerà le tensioni. Il leader dell’Autorità palestinese Abu Mazen ha detto che l’edificio «non è un’ambasciata, ma un insediamento». Anche la Turchia ha criticato gli Usa, mentre l’Arabia è rimasta prudente, non a caso.
Le mosse degli evangelici
Trump ha deciso lo spostamento per ragioni di politica interna, soprattutto per soddisfare la sua base evangelica, convinta che il Messia non potrà tornare sulla Terra fino a quando Israele non sarà tutta in mano agli ebrei. Lo dimostra la presenza alla cerimonia di personaggi come il reverendo Robert Jeffries, che ha recitato una preghiera.
Nello stesso tempo il presidente ambisce a fare «l’accordo più difficile della storia», e pensa che togliendo dal tavolo la questione del riconoscimento di Gerusalemme possa favorire la missione di Kushner. Il piano del genero, che secondo indiscrezioni non darebbe ai palestinesi uno stato, ma un’entità i cui confini sarebbero controllati dagli israeliani, è pronto. Però non viene presentato, perché Washington teme che sarebbe subito bruciato. Ma Trump non ci ha rinunciato, anche perché conta sulla rinnovata alleanza con l’Arabia Saudita, a cui ha promesso aiuto nella disputa con l’Iran, in cambio di pressioni su Abu Mazen e soldi da dare ai palestinesi, affinché accettino la sua proposta.
Giordano Stabile: "Hamas scatena la battaglia a Gaza. Raid e cecchini israeliani: 55 morti"
Giordano Stabile
Giovani avvolti nella bandiera palestinese, con un fazzoletto sulla bocca e il naso, armati di fionde, fra le spirali nere del fumo degli pneumatici in fiamme, mentre il terreno sabbioso e giallastro si tingeva di rosso, del sangue delle vittime, almeno 55 morti, oltre duemila feriti, 500 colpiti da proiettili veri, con i piedi, i polpacci spappolati. Sono le immagini arrivate ieri da Gaza, una battaglia fra forze impari, pietre contro fucili di precisione, la giornata più sanguinosa dal 30 marzo, quando è cominciata la mobilitazione da parte di Hamas, ma ora anche di Al-Fatah in Cisgiordania, dove ci sono stati altri scontri, al valico di Qalandia, a Betlemme, Ramallah, contro il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.
Le immagini hanno cominciato a scorrere sulle tv e in Rete mentre gli ospiti si preparavano al taglio del nastro. Un risultato almeno la protesta lo ha ottenuto, con i ragazzi spinti da Hamas verso una recinzione, un confine che significava morte quasi sicura. Israele non ha potuto festeggiare davvero «il giorno storico», come lo ha definito il premier Benjamin Netanyahu. Impossibile, con tutti quei morti. Era il primo obiettivo di Hamas ma anche del resto della dirigenza palestinese, a partire dal presidente Abu Mazen, che ha denunciato il «massacro» e accusato gli Stati Uniti di non essere più «credibili» come mediatori. Da oggi saranno tre giorni di lutto, e sciopero generale per ricordare la Nakba, la «catastrofe» del 1948.
Almeno sei delle vittime avevano meno di 14 anni. Il fanatismo del movimento islamista spiega, ma non tutto. Al confine fra Gaza e Israele c’era molta gente, quarantamila persone, forse più. Una sfida ai cecchini dell’esercito israeliano, a tutta Israele, perché «oggi è il grande giorno, oltrepasseremo il confine e mostreremo al mondo che non siamo disposti ad accettare l’occupazione per sempre». Una marcia per Gerusalemme e per il «diritto al ritorno» dei profughi, che con i discendenti sono milioni. Lo Stato ebraico la considera una minaccia e alla sua esistenza e non fa molta distinzione fra i manifestanti e le cellule di Hamas che hanno provato a forzare il confine, armate, con bombe da piazzare sulla strada che costeggia la recinzione. «Hamas spinge migliaia di persone al confine perché ci vuole distruggere, abbiamo diritto a difenderci», ribadiva il premier Netanyahu.
Scattavano i raid di rappresaglia, con i cannoni dei carri armati Merkava e gli F-16 dell’aviazione, che colpivano «postazioni militari» in profondità nella Striscia, altri tre morti, mentre davanti al consolato americano che si trasformava dopo 70 anni in ambasciata i dimostranti sventolavano le bandiere palestinesi e in molti venivano arrestati. La solidarietà araba, finora tiepida, si faceva sentire con la Lega araba, che dal Cairo evocava «un intervento internazionale per fermare l’orribile massacro», e con il Kuwait, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, che chiedeva una «riunione di emergenza». E, come difensore del mondo islamico, interveniva anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, condannava la scelta sul trasferimento dell’ambasciata dell’amministrazione americana, «pienamente responsabile» della «strage compiuta dalle forze di sicurezza israeliane».
Gerusalemme, la «terza città santa per i musulmani», è un nome che evoca battaglie e crea consensi fra il miliardo e mezzo di persone di fede islamica. Lo sa Erdogan, lo sa Hamas, ma lo sanno anche i gruppi jihadisti. A sventolare la bandiera di «Al-Quds» è arrivato anche il leader di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, dal suo nascondiglio, probabilmente in Pakistan. Un messaggio diffuso in Rete per spiegare che non solo Gerusalemme ma anche «Tel Aviv è terra dei musulmani» e i governi che riconosco in maniera ufficiale o implicita lo Stato ebraico, sono traditori e «venditori della Palestina».
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