Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/05/2018, a pag. 3 l'editoriale "Trump, l’Iran e l’accordo 'marcio' "; dalla REPUBBLICA, a pag. 1-31, con il titolo "Trump, strappo contro l'Europa", il commento di Bernardo Valli.
Ecco gli articoli:
La dichiarazione firmata da Donald Trump
IL FOGLIO: "Trump, l’Iran e l’accordo 'marcio' "
Il Foglio sottolinea a più riprese la natura del regime iraniano e i pericoli che diffonde in tutto il Medio Oriente, ma non ritiene che le proposte di Donald Trump siano utili a contenere l'espansionismo degli ayatollah, e dunque giudica negativamente le recenti dichiarazioni per il ritiro degli Usa dall'accordo. Di conseguenza la posizione del Foglio è ambigua. Un po' di qua e un po' di là: è la tecnica peggiore per non far capire nulla al lettore.
Ecco il pezzo:
L’ ex premier israeliano Ehud Barak ha sentimenti contrastanti sul ritiro americano dall’accordo “marcio” sul nucleare iraniano: “E’ come se tua suocera buttasse la Bmw nuova giù dal burrone”. L’incertezza di quel che avverrà, se la decisione di Donald Trump implica uno scontro diretto oppure no, potrebbe rendere gli iraniani più cauti, non più aggressivi, e in questo senso il ritiro “è una buona cosa”, ma “i vantaggi di breve periodo potrebbero essere poi riequilibrati dalle conseguenze di lungo periodo”, dice quel Barak che, nel 2012, si ritrovò dalla parte di chi proponeva uno strike preventivo israeliano contro le installazioni nucleari iraniane. Tecnicamente l’accordo internazionale è ancora in vigore: gli altri firmatari – gli iraniani per primi – hanno intenzione di tenerlo in piedi. Tecnicamente l’Iran non ha nemmeno violato l’accordo, lo ha fatto semmai l’America ritirandosi unilateralmente: gli ispettori dell’Agenzia atomica sono entrati con regolarità nel paese – undici volte – per controllare i siti nucleari e soltanto in due casi hanno trovato delle anomalie, che sono state subito corrette dagli iraniani. Ma la tecnica, nel mondo trumpiano, non conta molto, e in questo caso anche per l’efficacia stessa dell’accordo conta fino a un certo punto. Gli ispettori non possono entrare nei siti militari, cosa comprensibile, quale nazione al mondo farebbe entrare stranieri nei propri centri per la sicurezza nazionale?, ma se sei un paese che ha sempre dichiarato di non voler sviluppare armi atomiche, il nucleare è soltanto civile, e ci sono due scaffali di materiale, faldoni e cd, che mostrano il contrario, l’inaccessibilità diventa un po’ più sospetta. La minaccia nucleare è quel che preoccupa e ossessiona il premier israeliano Netanyahu – i giornali israeliani hanno ripubblicato un testo del 1993 di Netanyahu in cui già diceva che la minaccia reale, concreta, duratura era la Repubblica islamica d’Iran – e Trump ha ribadito che non vuole che il suo paese e i suoi alleati siano tenuti in ostaggio da questa minaccia. Ma se molti, anche dentro Israele, compreso il capo di stato maggiore, dicono che per ora il contenimento del programma nucleare funziona, quel che non va dell’accordo internazionale riguarda soprattutto gli obiettivi: la trattativa e il dialogo volevano portare non soltanto alla sospensione del programma nucleare (che non è stato terminato, è stato semmai ritardato), ma anche a un coinvolgimento della Repubblica islamica nella soluzione dei conflitti mediorientali e a un’apertura economica e sociale del paese. Non è accaduto nulla di quanto sperato, semmai anzi è accaduto il contrario: l’Iran ha allargato la sua area di influenza, combattendo contro i sauditi (che hanno naturalmente festeggiato il ritiro di Trump dall’accordo), sostenendo il regime di Damasco e minacciando gli americani nell’Iraq liberato dallo Stato islamico. L’alleanza con la Russia, in particolare in Siria, ha aiutato l’Iran nella missione di salvare l’alleato Assad, ma questa guerra di espansione – si chiama esportare la Rivoluzione islamica – ha avuto e ha un costo elevato. Anche per questo, il progetto di redistribuzione che il regime aveva promesso al proprio popolo dopo l’accordo non ha funzionato: le risorse sono state drenate dalla guerra. E poi resta la natura del regime che di fronte alla propria sopravvivenza e a quella del suo popolo sceglie invariabilmente la prima. Se a questo si aggiungono i test sui missili balisitici e lo sviluppo di armi convenzionali che domani potranno trasportare testate nucleari, si capisce che il coro di chi sostiene che “Trump destabilizza la regione” non ha poi così senso. Forse Trump avrebbe potuto tentare la via del potenziamento dell’accordo offerta dalla Francia, ma nella sua logica aveva già aspettato fin troppo, e questo accordo non poteva continuare in questi termini, anche se l’Europa oggi sente il proprio “orgoglio”, per usare il termine dell’Alto rappresentante Mogherini, ferito.
LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "Trump, strappo contro l'Europa"
Quello di Bernardo Valli è un articolo in difesa totale dell'accordo con l'Iran sciita degli ayatollah. Secondo Valli le dichiarazioni di Trump sul nucleare iraniano avrebbero "minato la credibilità della sua presidenza". Rimaniamo in attesa del primo articolo in cui Valli scriverà della credibilità di chi con gli ayatollah non ha esitato a firmare un accordo in nome del "business is business", in prima linea i governi europei, Italia compresa, come si evince da tutti i quotidiani italiani, preoccupati unicamente di fare affari con l'Iran.
Esattamente come avvenne negli anni '30, quando le democrazie in nome del business is business, non solo aiutarono Hitler nella sua ascesa al potere, ma posero le basi per la Seconda guerra mondiale. L'Iran, il cui progetto è di appropriarsi di tutto il Medio Oriente, compie lo stesso percorso. Le guerre si evitano se le democrazie occidentali sono forti, se sono deboli la guerra come la storia dimostra è inevitabile.
Ecco il pezzo:
Bernardo Valli
Con una mossa, più che accentuare l’isolamento degli Stati Uniti, Donald Trump ha minato la credibilità della sua presidenza. E con essa il rapporto con gli alleati europei. La prima, la credibilità, ne soffre perché non rispettando, con una decisione unilaterale, l’accordo sul nucleare iraniano, Trump viola le regole internazionali, si ritira da un impegno sottoscritto dal suo Paese e confermato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È un po’ come venir meno a una parola data senza un motivo che lo possa giustificare. Né i servizi di informazione, né l’Agenzia internazionale per l’energia atomica hanno convalidato l’accusa di Trump secondo la quale l’Iran non avrebbe rispettato l’accordo sul nucleare. continua a pagina 31 ? e pagine 12 e 13 La risposta del parlamento iraniano agli Usa dopo il ritiro di Trump dall’intesa nucleare: una bandiera bruciata ANSA ? segue dalla prima pagina ETeheran starebbe continuando il processo per dotarsi clandestinamente di armi atomiche. Non è la prima volta che Trump non rispetta gli impegni internazionali assunti dal predecessore, e che svaluta la parola degli Stati Uniti. La quale può dunque durare soltanto quattro anni, il tempo di un mandato presidenziale, al massimo di due previsti dalla Costituzione, anche se non vi sono motivi gravi ed evidenti per annullarla. Basta trovare un pretesto, magari falso, per renderla effimera, come accade in contrade con altre tradizioni. Trump si è già ritirato dall’accordo di Parigi sul clima; dal trattato di libero scambio ( Trans- Pacific Partnership); poi ha imposto dazi più pesanti sulle importazioni dell’acciaio e dell’alluminio, che potrebbe estendere agli europei, senza tener conto delle regole internazionali sul commercio. Tutti i firmatari dell’accordo sul nucleare iraniano, sottoscritto nel luglio 2015, hanno confermato il rispetto del patto, non essendo emersi motivi validi per annullarlo. In sostanza gli alleati europei, Francia, Gran Bretagna, Germania, insieme alla Cina e alla Russia, e al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, hanno accusato Trump di non avere detto il vero quando ha accusato Teheran di preparare clandestinamente armi atomiche. Il rapporto con gli europei è destinato a peggiorare se scatteranno le promesse sanzioni americane contro chi continuerà ad avere scambi o a investire in Iran. Anche George W. Bush jr invase l’Iraq con un falso pretesto, quello della presenza di armi di distruzione di massa, nel 2003, senza curarsi dell’Onu né del parere contrario di molti alleati europei. Quella spedizione militare contribuì ad alimentare gli interminabili e frammentati conflitti mediorientali. Anche la mossa diplomatica di Trump può avere gravi conseguenze. Basta un’occhiata allo sconquasso creato già nelle prime ore dopo l’annuncio per capire che i rischi di un nuovo conflitto, nella cronica situazione bellica del Medio Oriente, sono adesso molto alti. Le quasi puntuali ma non dichiarate incursioni aeree di Israele sulle truppe iraniane in territorio siriano sono già i primi movimenti che assomigliano a una guerra. Le reazioni alla decisione del presidente americano rivelano gli schieramenti, non certo sorprendenti. I Paesi arabi sunniti, con in testa l’Arabia saudita e l’Egitto, hanno approvato il discorso di Trump; e Israele, loro alleato, non ha nascosto la soddisfazione nel vedere confermato a Washington quanto aveva detto pochi giorni prima a Gerusalemme il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu. Sull’altro fronte vi sono in particolare il regime di Damasco e gli hezbollah libanesi, e ovviamente l’Iran, principale espressione del mondo sciita e in quanto tale all’origine del conflitto. La comune avversione per il regime degli ayatollah ha creato un’alleanza, anche se non legittimata da un riconoscimento diplomatico, tra la monarchia saudita e lo Stato ebraico. La prima vede nell’Iran, in netta espansione dopo l’intervento nella guerra civile siriana, un avversario temibile da ridimensionare; il secondo si sente minacciato dalla presenza sul territorio siriano, cioè ai confini, di milizie iraniane, appartenenti a un regime nemico. In cui gli esponenti più radicali non esitano a invocare la fine di Israele. La situazione è una conseguenza della guerra civile siriana e dell’effimera ma tragica presenza nella valle del Tigri e dell’Eufrate del “ califfato” ( o stato islamico), all’origine del terrorismo islamico in Europa. Per sconfiggerlo la coalizione creata dagli americani non ha esitato a usare come fanteria le milizie sciite comandate da iraniani, o quelle curde. I russi erano e sono alleati dello schieramento sciita e quindi avevano e hanno rapporti ancora più stretti con le milizie legate a Teheran. Israele ha seguito allarmato l’insediamento di guarnigioni iraniane nelle regioni confinanti siriane. Nella regione gli Stati Uniti avevano mantenuto una posizione al di sopra delle parti, per quanto riguarda la tenzone tra Arabia saudita e Iran. In particolare durante la presidenza di Barack Obama. Ma il laborioso accordo sul nucleare iraniano, stipulato dopo dieci anni di lavoro diplomatico, aveva attenuato l’isolamento di Teheran, nonostante l’opposizione dei sauditi e degli israeliani. Donald Trump ha abbandonato la posizione neutrale del predecessore democratico, e si è schierato con l’Arabia saudita e con Israele. Il suo ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano, giustificato con la denuncia secondo la quale Teheran prepara armi atomiche, assomiglia a una dichiarazione di guerra. Alcuni scorgono nella decisione di Trump una tattica più sottile: un’azione tesa a indebolire il regime degli ayatollah in preda a conflitti interni e assediati dalle sanzioni promosse dagli Stati Uniti.
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