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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.05.2018 Trump/Iran: i commenti all'insegna dello slogan 'business is business', come negli anni '30 con la Germania di Hitler
Di Marco Bresolin, Franco Venturini

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Marco Bresolin - Franco Venturini
Titolo: «L’Europa difende l’accordo: 'Rispetteremo i patti' - Una ferita all’Europa»

Riprendiamo oggi, 09/05/2018, dalla STAMPA, a pag. 5, con il titolo "L’Europa difende l’accordo: 'Rispetteremo i patti' ", la cronaca di Marco Bresolin; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-26, con il titolo "Una ferita all’Europa", il commento di Franco Venturini.

Marco Bresolin riporta le posizioni dei leader europei, Mogherini in testa, a proposito della decisione di Donald Trump di uscire dall'accordo voluto da Obama con il regime degli ayatollah. Invece di sottolineare la natura liberticida e guerrafondaia della dittatura sciita di Teheran, scrive "a rischio un business di 20 miliardi".

Anche nel commento di Franco Venturini l'accordo con l'Iran viene difeso all'insegna dello slogan "business is business". Le dichiarazioni di Trump, secondo Venturini, sarebbero una "ferita" per l'Europa e porterebbero a una "emarginazione" di quest'ultima nei rapporti internazionali.

Ecco gli articoli:

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Donald Trump firma un documento che reintroduce sanzioni contro l'Iran

LA STAMPA - Marco Bresolin: "L’Europa difende l’accordo: 'Rispetteremo i patti' "

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Marco Bresolin

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Federica Mogherini

La linea è stata definita ieri pomeriggio a Bruxelles durante un vertice a cinque tra gli sherpa di Francia, Regno Unito, Germania, Unione Europea e Iran (al tavolo c’era il viceministro degli Esteri, Abbas Araghchi). E in serata Federica Mogherini l’ha resa pubblica, a pochi minuti di distanza dall’annuncio di Donald Trump: finché Teheran continuerà a rispettare i patti - e secondo Bruxelles finora lo ha fatto - «l’Europa è determinata a preservare l’accordo sul nucleare». Determinazione da un lato, ma anche «grande preoccupazione» dall’altro per l’annuncio di nuove sanzioni che potrebbero colpire gli investimenti europei in Iran. Un business da circa 20 miliardi di euro. L’Ue, ha assicurato da Roma l’Alto rappresentante per la politica estera, farà di tutto per proteggerli.

Emmanuel Macron, Theresa May e Angela Merkel ieri si sono sentiti al telefono poco prima dell’annuncio di Donald Trump per concordare una risposta unitaria. In serata hanno diffuso una nota congiunta in cui esprimono «rammarico e preoccupazione» e si schierano in difesa del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa). Ma fanno un passo in più e ribadiscono la necessità di affrontare gli altri nodi irrisolti con un accordo più vasto. Vogliono un’intesa sugli aspetti a lungo termine dell’accordo sul nucleare (dopo il 2025), sul programma balistico di Teheran e sulle interferenze regionali in Medio Oriente, in particolare in Siria, Yemen e Iraq. Era stato proprio Emmanuel Macron, durante la sua visita a Washington, a ipotizzare un intervento di questo tipo per tentare, inutilmente, di convincere Trump in extremis. Ma la compattezza del fronte Ue su questi punti è ancora tutta da verificare.

Il premier italiano Paolo Gentiloni è intervenuto dicendo che «l’accordo va mantenuto». L’Italia - ha aggiunto - è «con gli alleati europei per confermare gli impegni presi». Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, annuncia che l’Ue risponderà con una voce «unitaria» alla decisione Usa. Nel Vecchio Continente nessuno sembra mettere in dubbio la difesa dell’accordo, ma è sui passi successivi che potrebbero emergere le distanze. La linea proposta dagli «E3» (Francia, Germania e Regno Unito, firmatari dell’accodo con l’Iran insieme con Cina, Russia, Usa, e Ue) trova ancora molte resistenze. L’idea di riportare Teheran al tavolo per affrontare gli altri temi viene considerata rischiosa da alcuni Paesi, che vogliono tenere separate le questioni perché temono che possa saltare tutto. La pensa così l’Italia, per esempio, ma questa è anche la posizione di Mogherini. I leader dei 28 Paesi Ue ne discuteranno mercoledì sera a Sofia, durante la cena che precederà il summit sui Balcani Occidentali.

CORRIERE della SERA - Franco Venturini: "Una ferita all’Europa"

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Franco Venturini

Donald Trump non ha voluto aspettare fino alla scadenza di sabato: ieri sera, dopo aver allertato il mondo intero sulle sue parole, ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo del 2015 sul nucleare iraniano. Le sanzioni che erano state revocate in cambio delle clausole restrittive imposte all’Iran nel patto di Vienna saranno reintrodotte progressivamente entro luglio, e il capo della Casa Bianca ha autorizzato penalità supplementari contro Teheran per colpire le sue sperimentazioni con missili balistici, la sua espansione militare in Medio Oriente, e la mancanza di garanzie contro la ripresa dei progetti nucleari dopo il 2025. Le pressioni diplomatiche degli europei sono dunque state vane. Nulla hanno potuto le considerazioni del britannico Boris Johnson, che nei giorni scorsi aveva brillantemente riassunto, proprio ora che Londra si prepara a divorziare dalla Ue, i timori degli alleati europei dell’America: l’accordo del 2015 ha i suoi difetti, è vero, ma è servito e serve ancora a impedire eventuali tentazioni nucleari dell’Iran; le verifiche dell’Aiea sono le più stringenti mai attuate, e hanno confermato nove volte che Teheran rispetta l’intesa; se il patto saltasse a seguito della decisione Usa, l’Iran potrebbe arrivare fino a riprendere l’arricchimento dell’uranio senza alcun controllo e a uscire dal trattato sulla non-proliferazione; si può lavorare sulle questioni sollevate da Washington, ma è sbagliato distruggere quel che è stato ottenuto in assenza di alternative valide. Trump e i suoi nuovi consiglieri Pompeo e Bolton hanno sentito senza ascoltare, perché la vera priorità del presidente era disfare quel che Obama aveva sottoscritto e confermare alla sua base elettorale che le promesse dalla campagna vengono mantenute. Attento al suo fronte interno e appoggiato dall’israeliano Netanyahu, il capo della Casa Bianca ha tuttavia aperto una ferita difficile da sanare con i tradizionali alleati europei. I quali tenteranno di «salvare» l’accordo rimanendovi fedeli e chiedendo all’Iran di fare altrettanto, ma dovranno fare i conti con due grosse incognite: il futuro politico dei riformisti di Rouhani in Iran (i «falchi» si prenderanno le loro rivincite) e la natura delle sanzioni americane. Stando all’annuncio di Trump, Washington applicherà nei confronti degli alleati le cosiddette sanzioni secondarie, volte a colpire chiunque faccia affari con l’Iran. Le aziende (anche italiane) che dopo il 2015 erano tornate ad affacciarsi da quelle parti sarebbero così indotte a battere in ritirata, anche per non compromettere l’accesso al mercato statunitense. E l’Iran anche stavolta reagirebbe, rendendo sempre più concreta la prospettiva di una guerra evocata in questi giorni da Macron. Il quale ieri è stato sì avvisato in anticipo da Trump, ma ha dovuto misurare la portata delle sue illusioni e quella delle sue ambizioni. Anche la Russia e la Cina hanno subito disapprovato la scelta di Trump. Ma il vero vulnus che il presidente degli Stati Uniti ha creato non riguarda i già difficili rapporti con Mosca e Pechino, e nemmeno le pur pesanti conseguenze che potrebbero aversi in Iran. Riguarda, piuttosto, quel patrimonio storico che viene chiamato Occidente, e che ha il suo perno nei rapporti transatlantici. È comprensibile che oggi, quasi trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, si ponga il problema di creare un nuovo sistema internazionale dopo quello dei blocchi contrapposti. Ma lungo il cammino, quale sarà la sorte dell’Occidente? La vera partita sembra giocarsi sulle conseguenze geopolitiche dell’«America First», sulla questione dei dazi americani che pesa sull’Europa oltre che sulla Cina, su idee e interessi transatlantici che si vanno divaricando, mentre Trump ha spezzato in due l’America e l’Europa è preda di nazionalismi rampanti e destabilizzanti. Trump non ha sempre torto. Non ha torto quando chiede agli europei di contribuire maggiormente ai costi della difesa comune fornita dalla Nato. Ma torna a sbagliare quando guarda con sospetto e ostilità gli sforzi volti a creare le basi di una difesa europea. In questo come in altri settori, le visioni strategiche si confondono con gli umori popolari che le nostre democrazie rendono sovrani in sede elettorale. Se Trump ha mandato alle ortiche l’accordo sull’Iran, è anche perché il presidente è già in campagna elettorale per il 2020, con il Russiagate che lo incalza assieme ad altre poco edificanti vicende. E dalle nostre parti non si può dimenticare che Angela Merkel è più debole di prima, che Emmanuel Macron ha ricevuto il colpo più duro da Trump e fatica a conservare il consenso sociale, che Theresa May ha il merito di aver tenuto Londra vicina agli alleati europei ma il suo futuro è una incognita. Il ripudio del patto iraniano nasce anche da questa somma di debolezze. Senza dimenticare che l’Italia resta immersa nelle sue convulsioni politiche ed è incapace di difendere i suoi interessi, con il rischio, noto a Bruxelles come a Washington, che la sua emarginazione internazionale diventi durevole. Non basteranno, dopo lo strappo di ieri, le solidarietà atlantiche di maniera, i bombardamenti allargati come quello sulla Siria e nemmeno il compiacimento generale che certo accoglierà l’incontro tra Trump e Kim Jong-un. L’Occidente, da oggi, prende atto della sua crisi. Se non cambierà strada, verrà il giorno in cui finalmente si capirà di aver fatto pervenire un bellissimo regalo a Vladimir Vladimirovich Putin.

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Donald Trump non ha voluto aspettare fino alla scadenza di sabato: ieri sera, dopo aver allertato il mondo intero sulle sue parole, ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo del 2015 sul nucleare iraniano. Le sanzioni che erano state revocate in cambio delle clausole restrittive imposte all’Iran nel patto di Vienna saranno reintrodotte progressivamente entro luglio, e il capo della Casa Bianca ha autorizzato penalità supplementari contro Teheran per colpire le sue sperimentazioni con missili balistici, la sua espansione militare in Medio Oriente, e la mancanza di garanzie contro la ripresa dei progetti nucleari dopo il 2025. Le pressioni diplomatiche degli europei sono dunque state vane. Nulla hanno potuto le considerazioni del britannico Boris Johnson, che nei giorni scorsi aveva brillantemente riassunto, proprio ora che Londra si prepara a divorziare dalla Ue, i timori degli alleati europei dell’America: l’accordo del 2015 ha i suoi difetti, è vero, ma è servito e serve ancora a impedire eventuali tentazioni nucleari dell’Iran; le verifiche dell’Aiea sono le più stringenti mai attuate, e hanno confermato nove volte che Teheran rispetta l’intesa; se il patto saltasse a seguito della decisione Usa, l’Iran potrebbe arrivare fino a riprendere l’arricchimento dell’uranio senza alcun controllo e a uscire dal trattato sulla non-proliferazione; si può lavorare sulle questioni sollevate da Washington, ma è sbagliato distruggere quel che è stato ottenuto in assenza di alternative valide. Trump e i suoi nuovi consiglieri Pompeo e Bolton hanno sentito senza ascoltare, perché la vera priorità del presidente era disfare quel che Obama aveva sottoscritto e confermare alla sua base elettorale che le promesse dalla campagna vengono mantenute. Attento al suo fronte interno e appoggiato dall’israeliano Netanyahu, il capo della Casa Bianca ha tuttavia aperto una ferita difficile da sanare con i tradizionali alleati europei. I quali tenteranno di «salvare» l’accordo rimanendovi fedeli e chiedendo all’Iran di fare altrettanto, ma dovranno fare i conti con due grosse incognite: il futuro politico dei riformisti di Rouhani in Iran (i «falchi» si prenderanno le loro rivincite) e la natura delle sanzioni americane. Stando all’annuncio di Trump, Washington applicherà nei confronti degli alleati le cosiddette sanzioni secondarie, volte a colpire chiunque faccia affari con l’Iran. Le aziende (anche italiane) che dopo il 2015 erano tornate ad affacciarsi da quelle parti sarebbero così indotte a battere in ritirata, anche per non compromettere l’accesso al mercato statunitense. E l’Iran anche stavolta reagirebbe, rendendo sempre più concreta la prospettiva di una guerra evocata in questi giorni da Macron. Il quale ieri è stato sì avvisato in anticipo da Trump, ma ha dovuto misurare la portata delle sue illusioni e quella delle sue ambizioni. Anche la Russia e la Cina hanno subito disapprovato la scelta di Trump. Ma il vero vulnus che il presidente degli Stati Uniti ha creato non riguarda i già difficili rapporti con Mosca e Pechino, e nemmeno le pur pesanti conseguenze che potrebbero aversi in Iran. Riguarda, piuttosto, quel patrimonio storico che viene chiamato Occidente, e che ha il suo perno nei rapporti transatlantici. È comprensibile che oggi, quasi trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, si ponga il problema di creare un nuovo sistema internazionale dopo quello dei blocchi contrapposti. Ma lungo il cammino, quale sarà la sorte dell’Occidente? La vera partita sembra giocarsi sulle conseguenze geopolitiche dell’«America First», sulla questione dei dazi americani che pesa sull’Europa oltre che sulla Cina, su idee e interessi transatlantici che si vanno divaricando, mentre Trump ha spezzato in due l’America e l’Europa è preda di nazionalismi rampanti e destabilizzanti. Trump non ha sempre torto. Non ha torto quando chiede agli europei di contribuire maggiormente ai costi della difesa comune fornita dalla Nato. Ma torna a sbagliare quando guarda con sospetto e ostilità gli sforzi volti a creare le basi di una difesa europea. In questo come in altri settori, le visioni strategiche si confondono con gli umori popolari che le nostre democrazie rendono sovrani in sede elettorale. Se Trump ha mandato alle ortiche l’accordo sull’Iran, è anche perché il presidente è già in campagna elettorale per il 2020, con il Russiagate che lo incalza assieme ad altre poco edificanti vicende. E dalle nostre parti non si può dimenticare che Angela Merkel è più debole di prima, che Emmanuel Macron ha ricevuto il colpo più duro da Trump e fatica a conservare il consenso sociale, che Theresa May ha il merito di aver tenuto Londra vicina agli alleati europei ma il suo futuro è una incognita. Il ripudio del patto iraniano nasce anche da questa somma di debolezze. Senza dimenticare che l’Italia resta immersa nelle sue convulsioni politiche ed è incapace di difendere i suoi interessi, con il rischio, noto a Bruxelles come a Washington, che la sua emarginazione internazionale diventi durevole. Non basteranno, dopo lo strappo di ieri, le solidarietà atlantiche di maniera, i bombardamenti allargati come quello sulla Siria e nemmeno il compiacimento generale che certo accoglierà l’incontro tra Trump e Kim Jong-un. L’Occidente, da oggi, prende atto della sua crisi. Se non cambierà strada, verrà il giorno in cui finalmente si capirà di aver fatto pervenire un bellissimo regalo a Vladimir Vladimirovich Putin.
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