Paolo Mastrolilli
L’Iran è il più grande sponsor mondiale del terrorismo, l’accordo nucleare non ha portato la pace e non garantisce che non costruisca la bomba, e perciò gli Usa lo abbandonano. Lo fanno nel modo più duro possibile, quella che gli analisti chiamano «opzione atomica». Infatti, anche le aziende europee verranno colpite dalle sanzioni americane, se firmeranno nuovi contratti con Teheran, o se non annulleranno quelli esistenti nell’arco di tempi variabili che il dipartimento al Tesoro sta definendo. Una scelta netta, che lascia aperte solo due strade: l’improbabile resa della Repubblica Islamica, attraverso un nuovo accordo che recepisca tutte le richieste di Washington; oppure l’avvio di un processo finalizzato al cambio di regime.
La delusione di Obama
«Una decisione completamente sbagliata», è stato il commento di Barack Obama. Il presidente Trump ha fatto l’annuncio che ormai tutti si aspettavano poco dopo le due del pomeriggio: «L’Iran - ha detto - è il principale sponsor mondiale del terrorismo. Continua a sviluppare i suoi missili e a destabilizzare il Medio Oriente. Ora abbiamo anche la prova definitiva che la promessa di non sviluppare le armi atomiche era una bugia». Un chiaro riferimento alle recenti rivelazioni fatte dal premier israeliano Netanyahu, secondo cui fino al 2003 Teheran aveva lavorato alla bomba. «È chiaro - ha aggiunto Trump - che il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) non impedisce agli iraniani di costruire armi nucleari. Perciò ho ordinato di uscirne». Tutte le sanzioni che esistevano prima dell’intesa tornano in vigore, e «colpiranno anche chi aiuterà la Repubblica islamica a sviluppare i suoi programmi». Questo chiarirà che «noi non facciamo minacce vuote». Trump ha detto di essere sempre pronto a un nuovo accordo, ma a condizione che Teheran accetti tutte le sue richieste. Se non lo farà, e tornerà a sviluppare il programma atomico, «subirà conseguenze mai viste prima». Quindi il capo della Casa Bianca ha lanciato un appello agli iraniani, dicendo che «il futuro del Paese appartiene al suo popolo. Avete diritto a un governo che realizzi i vostri sogni». Un invito alla sollevazione, in altre parole, perché «grandi cose potrebbero avvenire per l’Iran», se non fosse paralizzato dal suo regime.
Gli analisti definiscono questa linea come «l’opzione nucleare», perché non ha accettato alcun compromesso offerto dagli alleati europei, che concedesse loro un po’ di tempo per proseguire la trattativa. Negli ultimi negoziati avevano proposto di penalizzare il programma missilistico, e ristabilire tutte le sanzioni, se alla scadenza della «sunset clause» Teheran fosse tornata a 12 mesi dalla realizzazione dell’arma nucleare. Trump però ha rifiutato, insistendo su tre punti: l’accordo non deve avere scadenze, deve includere il divieto dei missili, e deve fermare le attività terroristiche e destabilizzanti degli ayatollah. Quindi le sanzioni rientrano tutte in vigore, subito, come prima della firma del JCPOA. Se poi l’Iran ci ripenserà, lui è pronto a negoziare un accordo diverso.
Il fronte europeo
Per quanto riguarda le attività degli europei, una fonte della Casa Bianca ha spiegato così la situazione: «Noi siamo fuori dall’accordo. La decisione del presidente rimette in vigore immediatamente tutte le misure. Se qualcuno firmerà nuovi contratti, incorrerà nelle sanzioni americane. Per quanto riguarda quelli già esistenti, il dipartimento al Tesoro definirà i dettagli del «winding down». Le aziende avranno un periodo variabile, compreso tra 90 giorni e sei mesi, per annullarli. Se non lo faranno, alla scadenza saranno sanzionate».
I difensori del JCPOA dicevano che l’Iran non lo aveva violato, e quindi conveniva tenerlo in vigore, fino a quando non fosse emersa un’alternativa. A Trump però questo argomento non interessava, perché secondo lui l’accordo era sbagliato nella sua essenza, in quanto consentiva a Teheran di continuare a minacciare tutti. Quindi il suo rispetto era irrilevante. A chi gli ha fatto notare che così complica anche il negoziato con Pyongyang, dimostrando l’inaffidabilità degli Usa, ha risposto che il segretario di Stato Pompeo è in Corea del Nord per preparare il suo vertice con Kim. Quindi il messaggio è l’opposto: ritirandosi dall’accordo con gli ayatollah, Washington dimostra a Pyongyang che vuole un’intesa seria, e agli ayatollah che per ottenere una via d’uscita pacifica dovranno accettare le sue condizioni. Altrimenti il piano B diventerà lo scontro frontale.
Giordano Stabile: "Rohani: 'Decisione illegittima. Pronti ad arricchire l’uranio' "
Giordano Stabile
Hassan Rohani risponde nel giro di pochi minuti, in diretta tv, all’annuncio di Donald Trump e accusa l’America di aver preso una decisione «illegale, illegittima, che mina gli accordi internazionali», di essere un Paese che «mette firme vuote su pezzi di carta» e non rispetta mai la parola data. Il presidente iraniano annuncia che «resterà nell’intesa» ma avverte che «c’è poco tempo per iniziare i negoziati per mantenerla in piedi», e di aver ordinato all’Agenzia atomica «di essere pronta a riprendere l’arricchimento dell’uranio come mai prima, già nelle prossime settimane», se non ci dovesse riuscire.
La replica è un misto di orgoglio nazionale e ricerca di dialogo, per lo meno con l’Europa. L’Iran, assicura «sarà più forte e unito che mai», non è isolato e ha dimostrato di saper mantenere gli impegni mentre gli Stati Uniti non sono affidabili e «l’unico alleato che li segue è Israele».
Rohani, alla fine, ribadisce che il suo governo è pronto a fare «tutto quello che vuole il popolo iraniano» contro Stati Uniti e Stato ebraico. «L’opzione militare», anche se mai citata, è sul tavolo della Guida Suprema Ali Khamenei, in un ventaglio di reazioni che possono andare dalla più moderata, restare nell’intesa con europei, russi e cinesi, alla più estrema, uscire dal Trattato di non proliferazione come fece la Corea del Nord. Anche perché, se Israele teme un «accerchiamento» da parte degli Stati arabi alleati della Repubblica islamica, gli ayatollah si sentono a loro volta sotto assedio, con decine di basi militari Usa nel Golfo, in Iraq, Afghanistan, viste come una tenaglia.
Ed è proprio Rohani, all’interno del regime, il più indebolito dalla virata dell’America: dovrà dimostrare in fretta di saper salvare quel che resta dell’accordo e proteggere l’economia. Khamenei, che svolge un ruolo di mediazione fra l’ala dialogante e quella oltranzista, rischia di essere spinto verso le posizioni dei Pasdaran. Su questa linea è il presidente del Parlamento Ali Larijani: «L’unico linguaggio che conoscono gli americani - ha commentato - è la forza». Gli ha fatto eco il comandante dei Pasdaran, generale Hossein Salami, che ha avvertito che il Paese «è pronto agli scenari più pericolosi».
L’ala estremista spinge per una rappresaglia su Israele, per «vendicare» i raid in Siria del 9 e 29 aprile. È una minaccia che Israele prende sul serio. Ieri il premier Benjamin Netanyahu, dopo aver lodato «la coraggiosa decisione» di Trump, è tornato ad accusare l’Iran di piazzare «armi molto pericolose in Siria», mentre l’intelligence militare ha notato «movimenti sospetti» di forze iraniane e ha portato le forze di difesa «all’allerta massima» sul Golan, dove ha fatto aprire i rifugi anti-bomba. Soffiano qui i venti di guerra più forti: l’esercito ha cominciato a richiamare i riservisti e un raid, con tutta probabilità israeliano, ha colpito una base militare siriana vicino a Damasco, nella cittadina di Kisweh. Due missili israeliani - dice la tv di Stato siriana - sono stati abbattuti. L’intelligence è convinta che gli obiettivi di una possibile rappresaglia siano le basi dell’aviazione in Israele, con una ritorsione missilistica affidata a milizie sciite alleate come Hezbollah, e vuole anticipare le mosse iraniane.
Il secondo fronte che rischia di aprirsi è quello contro soldati Usa in Iraq e Siria, dove Washington schiera duemila uomini. In Siria ci sono anche dai 10 ai 15 mila combattenti iracheni sciiti della Brigata Harakat Hezbollah al-Nujaba. Il loro leader, l’imam Akram Kaabi, ha già minacciato le truppe americane, «un bersaglio legittimo». L’ultimo fronte è quello economico. La sospensione delle sanzioni alla fine del 2015 ha portato a un boom, con una crescita del 13 per cento nell’anno fiscale 2016-2017. Ma già nel 2017-2018 ci sarà un forte rallentamento, secondo la Banca mondiale. Con il ripristino delle sanzioni si rischia la recessione. Teheran deve fronteggiare un possibile taglio all’export di petrolio di un milione di barili: ai prezzi attuali una perdita di 70 milioni di dollari al giorno. Solo la Cina, che ha raddoppiato nell’ultimo decennio la sua quota sulle esportazioni di greggio iraniano, potrebbe ridurre l’impatto negativo.
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