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La Repubblica Rassegna Stampa
08.05.2018 L'abituale disinformazione su Israele di Repubblica
Di Vincenzo Nigro, Laura Putti

Testata: La Repubblica
Data: 08 maggio 2018
Pagina: 17
Autore: Vincenzo Nigro - Laura Putti
Titolo: «Quando il Mossad creò un finto resort 'umanitario' - Gaza, la famiglia che prima c’era e ora non c’è più»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/05/2018, a pag.17, con il titolo "Quando il Mossad creò un finto resort 'umanitario' " il commento di Vincenzo Nigro; a pag. 37, con il titolo "Gaza, la famiglia che prima c’era e ora non c’è più", il commento di Laura Putti.  

Ecco gli articoli:

Vincenzo Nigro: "Quando il Mossad creò un finto resort 'umanitario' "

Ha un tono sgradevole il commento di Vincenzo Nigro, che ricostruisce la storia di una delle operazioni più spettacolari del Mossad. In particolare, Nigro descrive la missione come "una delle poche in cui agenti del servizio segreto israeliano invece di uccidere nemici o rapire scienziati nucleari hanno salvato decine di fratelli ebrei", ignorando che il Mossad ha spesso portato a compimento azioni di salvataggio e, anche nei casi di interventi violenti, ha sempre operato minimizzando la perdita di vite umane. E' però un'occasione, per Nigro, per diffondere veleno contro Israele.

Ecco il pezzo:

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Vincenzo Nigro

Un finto villaggio vacanze sul Mar Rosso per una vera missione “umanitaria” del Mossad. Un’operazione clandestina che dal 1980 al 1983 riuscì a riportare in Israele centinaia di “falascià”, i “beta Israel”, gli ebrei etiopici che a migliaia, per anni, avevano vissuto nei campi profughi del Sudan. Per organizzare questa “Operazione Fratelli”, il Mossad mise in piedi sulle rive del Mar Rosso un resort in cui attirare turisti da tutta Europa per il diving, la pesca subacquea e le gite in mare. Ma la vera missione degli agenti segreti che gestivano l’Arous Holiday Village era quella di proteggere i falascià sfuggiti in Etiopia alle persecuzioni del dittatore rosso Menghistu e trasferirli fino alle coste del mare. Dovevano essere imbarcati su navi o piccoli aerei per spedirli verso Israele. La storia di “Operazione Fratelli” era già nota, descritta dal libro di Gad Shimron, uno degli agenti del Mossad che mise in piedi il villaggio. La novità è che sta per uscire un film sulla missione, una delle poche in cui agenti del servizio segreto israeliano invece di uccidere nemici o rapire scienziati nucleari hanno salvato decine di fratelli ebrei a costo di esser scoperti dall’esercito del nemico Stato arabo del Sudan. “Mossad Exodus, il salvataggio della tribù perduta di Israele” racconta che il villaggio fu scelto affittando dall’ente del turismo sudanese 15 villette che un imprenditore italiano aveva costruito sul Mar Rosso ma poi aveva abbandonato perché il governo non aveva portato acqua, strade ed elettricità come promesso. I profughi, diciamo pure i migranti etiopici falascià, venivano contattati nei campi profughi in Sudan, seguiti nelle loro migrazioni e trasferiti sul mare. Nel libro Shimron ricorda che una notte l’esercito sudanese seguì un convoglio con il suo carico umano fino al mare. I militari iniziarono a sparare, credendo si trattasse di un gruppo di contrabbandieri: gli israeliani del Mossad si salvarono dicendo che organizzavano trasferte turistiche, gite in barca di notte. Non si capisce come, i sudanesi ci credettero, smisero di sparare e chiesero scusa. Per 3 anni gli agenti del Mossad gestirono quindi il resort, dopo aver ristrutturato le ville dell’imprenditore italiano, creato la strada di collegamento e installato gruppi elettrogeni. La missione “Fratelli” venne seguita poi da 3 operazioni molto più massicce e decisive, i ponti aerei con cui la El Al trasferì in 3 mandate 90 mila ebrei etiopici in Israele direttamente dall’Etiopia. L’ultima fu l’operazione “Mosè”: nel maggio del 1991 per 3 notti i Boeing della El Al viaggiarono con i falascià caricati a centinaia nelle carlinghe svuotate dai sedili. Fu ancora una incredibile operazione del Mossad: Menghistu era appena fuggito, il Mossad pagò milioni di dollari ai suoi ministri perchè permettessero la libertà ai poveri “beta Israel”.

Laura Putti: "Gaza, la famiglia che prima c’era e ora non c’è più"

Ignobile la descrizione delle condizioni di Gaza nel pezzo di Laura Putti. La miseria e i problemi sociali vengono attribuiti a Israele, mentre sul terrorismo di Hamas cala il silenzio. Il risultato è un articolo che poteva essere pubblicato sul Manifesto, tanto è il livello della disinformazione che diffonde. Più grave il fatto che esca su Repubblica, mentre il Manifesto influenza solo chi è già un onvinto odiatore, il lettore del quotidiano debenedettiano è convinto di leggere un giornale imparziale.

Ecco il pezzo:

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La bambina è appoggiata a un muretto. Guarda nel vuoto e dice: non ho più storie da raccontare. È un fuscello con un cerchietto rosa tra i capelli raccolti. Prende quasi per mano la cinepresa e la conduce verso uno spiazzo vuoto, deserto. Amel disegna un cerchio sul suolo di terra. «Qui, prima, c’era un sicomoro. Faceva ombra a tutti, era un albero enorme». Prima, dice. Ma prima di cosa? Lo scopriremo in La strada dei Samouni, il documentario che Stefano Savona ha girato a Gaza — prodotto tra gli altri da Raicinema e Arte — scelto nella Quinzaine des réalizateurs a Cannes. Palermitano di Parigi, Savona è uno dei più importanti registi italiani di “cinema del reale”. Dove avviene la Storia, lui c’è. Il suo Tahrir, Piazza della Liberazione (2011) ha vinto un David e un Nastro d’Argento. Per due mesi ha vissuto a Gaza: un mese nel 2009, e uno l’anno successivo. «Il giorno in cui è finita la guerra, Guido Rampoldi e io siamo riusciti a entrare a Gaza dall’Egitto con documenti falsi. Era il 7 gennaio 2009. Eravamo soli. Nel giro di pochi giorni sarebbero arrivati migliaia di giornalisti da tutto il mondo». Savona e Rampoldi (allora inviato di Repubblica), si trovarono davanti alla devastazione. «Quando Rampoldi è partito lasciando il posto a Bernardo Valli, con lui sono andato dalla famiglia Samouni. E a quel punto mi è stato chiaro che quella storia meritava un film» spiega il regista seduto in un caffè non lontano dalla Bastiglia a Parigi. È un tipo serio, schivo, un po’ nervoso. Ha un passato da archeologo, e adesso scava nella vita della gente. «Ho vissuto con i Samouni per due mesi. In casa erano circa centocinquanta. Negli ultimi giorni di Piombo Fuso (l’operazione lanciata da Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza alla fine del 2008, ndr) un’azione via terra e via cielo ne ha uccisi ventinove. Dentro casa. Ho voluto raccontare il prima e il dopo il massacro della famiglia Samouni. Perché il mondo non sa nulla della Palestina, e nulla di quello che veramente accade a Gaza. Parlando della Striscia tutti pensano subito: guerra. Ma non è solo questo. Il mio problema era costruire un universo significante senza dare nulla per scontato. Se non si mostra un tessuto di umanità li guarderemo sempre dall’altro lato di un vetro». E invece la piccola cinepresa a spalla di Stefano Savona ha avuto il privilegio di entrare in casa della famiglia Samouni dopo il massacro, prima che Hamas pagasse per ogni “martire combattente”. «Mi fa sorridere pensare a uno dei quattro fratelli Samouni, i più anziani, come a un martire combattente» dice Savona. «Era un uomo molto tranquillo. Parlava ebreo, andava a lavorare in Israele. I Samouni non sono palestinesi politicizzati. Non fanno parte dell’ottanta per cento dei rifugiati che vive a Gaza. Loro sono fuori, nella parte rurale, sulla Samouni Road; si chiama così perché la famiglia ci vive da sempre, da ben prima del 1948, quando nacque lo Stato di Israele». Savona nega di essere filopalestinese. E le recenti dichiarazioni antisemite di Abu Mazen lo allontanano ancora di più dalla scelta di una posizione. «Non è facile giudicare. Non sono filopalestinese, né filoisraeliano. Ho voluto raccontare delle persone, non una situazione politica». Il film è un gioiello di umanità e tecnica. Umanamente sembra essere diviso in tre parti: il prima, il massacro — ricostruito in modo impressionante e preciso come un’operazione militare dalla parte dell’esercito — e il dopo. Tecnicamente è invece in due parti: le immagini della realtà e l’animazione dei fatti che mai avremmo potuto vedere. Le ha fatte un prodigio del disegno animato: il marchigiano Simone Massi. «Ho chiesto a Massi di fare i disegni animati da intercalare alle immagini reali. Gli ho dato quaranta minuti di un film in 3D e lui ha messo all’opera più di venti disegnatori che hanno lavorato per circa quattro anni. Otto tavole al secondo, per quaranta minuti fanno più di 19 mila disegni. L’ha ispirata Valzer con Bashir? «Lì c’era molto computer. Per il mio film un disegnatore faceva circa quattro tavole, cioè mezzo secondo, al giorno. E in quei disegni metteva la sua vita, tutta la sua umanità».

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