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Informazione Corretta Rassegna Stampa
03.05.2018 Vasilij Grossman tra vita e destino
Analisi di Giuliana Iurlano

Testata: Informazione Corretta
Data: 03 maggio 2018
Pagina: 1
Autore: Giuliana Iurlano
Titolo: «Vasilij Grossman tra vita e destino»

Vasilij Grossman tra vita e destino
Analisi di Giuliana Iurlano

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Vasilij Grossman

Quello di Vasilij Grossman è veramente un “caso eccezionale”, il caso di uno scrittore ebreo che, come molti altri ebrei integrati nella società russa, aveva rimosso la sua ebraicità e si era fortemente sovietizzato, per poi, negli anni successivi, trasformarsi gradualmente e naturalmente in uno strenuo oppositore del regime. La sua affermazione come scrittore realista sovietico era avvenuta sotto l’egida di Maksim Gor’kij, soprattutto seguendo la guerra antinazista come inviato speciale di un giornale militare, per il quale pubblicò anche il romanzo di guerra “Il popolo è immortale”. Nel 1952 Grossman diede alle stampe “Per una giusta causa”, la prima parte di una grande epopea sulla guerra di liberazione antifascista, che, però, gli valse una dura critica da parte del regime staliniano.

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La svolta fu segnata da “Vita e destino” del 1960, il romanzo che avrebbe dovuto essere la continuazione del volume del 1952, ma che, in modo del tutto naturale, prese invece una piega “antisovietica”, quando l’antifascismo di Grossman approdò verso un intransigente anti-totalitarismo, di cui proprio il sistema sovietico era l’emblema supremo. Il manoscritto di “Vita e destino” sarebbe stato confiscato dalla polizia politica, che fece irruzione nella casa dello scrittore per sequestrare ogni altra copia di quell’opera giudicata fortemente sovversiva. Grossman era ancora convinto che ci fosse stato un fraintendimento, soprattutto dopo che Chruščëv sembrava aver liquidato l’era staliniana; per questo gli scrisse una lunga lettera, sperando che il capo del Cremlino autorizzasse la pubblicazione della sua opera, ma il risultato fu solo una convocazione da parte dell’ideologo del partito, Michail Andreevič Suslov, che – disarmato dal candore di Grossman – gli spiegò la pericolosità della sua opera, paragonabile alle “bombe atomiche” nemiche e, dunque, impubblicabile per i successivi trecento anni. In realtà, il romanzo fu pubblicato in Occidente nel 1980, mentre dieci anni prima era uscito, sempre in Occidente, “Tutto scorre…”, ma Grossman non fece in tempo a vedere né l’uno né l’altro, perché morì in solitudine nel 1964: la sua “colpa” era stata quella d’aver violato le regole di un regime che, nonostante il tanto conclamato “disgelo”, emarginava scrittori come lui e come Pasternak e Solženicyn. La cosa interessante, però, è che proprio l’ebraicità rimossa sarebbe venuta di nuovo alla luce in Grossman, facendogli vedere le cose da una prospettiva completamente diversa: sarebbe stata proprio la violenza hitleriana perpetrata contro gli ebrei – e che, come inviato di guerra, egli aveva documentato visitando tra i primi i campi di sterminio nazisti – a risvegliare la sua coscienza sopita di ebreo e a portarlo a cogliere quello che, poi, altri storici avrebbero fatto in seguito, vale a dire la profonda affinità tra lager e gulag, tra nazismo e comunismo, aspetti complementari e speculari di uno stesso sistema totalitario basato sul terrore. E proprio questa esperienza lo avrebbe portato, sin dal 1947, a documentare il genocidio nazista degli ebrei in territorio sovietico in quell’opera monumentale scritta con Il’ja Erenburg, che è il “Libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici. 1941-1945”, censurato dai sovietici e pubblicato in Occidente solo dopo il crollo del comunismo. Quest’opera è estremamente significativa perché contiene una storia nella storia: la sua redazione, infatti, ha subìto da parte degli autori delle vere e proprie autocensure allo scopo di prevenire la censura ufficiale. Può sembrare strano che il regime di Stalin non fosse più d’accordo sulla pubblicazione di un’opera documentaria sui crimini hitleriani, ma la situazione generale era cambiata e la Shoah non costituiva più una priorità. I due curatori, tuttavia, insieme agli autori e ai collaboratori, tutti riuniti nel Comitato antifascista ebraico (EAK) dell’Unione Sovietica, continuarono comunque il lavoro, nonostante l’assassinio di Solomon Michajlovič Michoėls e la messa al bando dell’EAK, troppo “disinvolto” nei suoi rapporti con l’Occidente.

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Nonostante il lavoro certosino di autocensura, il volume fu proibito e ritirato e soltanto grazie ad Irina Erenburg, la figlia di Il’ja, la versione integrale e originale ha potuto poi vedere la luce nella sua versione integrale, comprendente anche la prefazione di Albert Einstein, primo ideatore del libro, prefazione rifiutata da Mosca perché rivendicava la tutela delle minoranze nazionali e la deroga al principio di non ingerenza negli affari internazionali degli Stati in caso di violazione dei diritti umani, aspetti, questi, decisamente in contrasto con la politica staliniana. E poi gli stessi tagli censori, che ci raccontano come il massacro di Babij Jar fosse stato minimizzato o come ad Hmelnik gli ebrei sopravvissuti si fossero battuti strenuamente per liberare la città. Ma l’autocensura colpiva implacabilmente anche il ruolo degli ebrei nella lotta al nazismo, come nel passo seguente relativo ai fatti di Bialystok: “Chiunque ha visto in quali terribili condizioni era ridotta a vivere la popolazione ebraica sotto il giogo di Hitler e con quale eroismo essa ha lottato contro i carnefici tedeschi, può capire quale grande contributo abbiano dato gli ebrei alla definitiva sconfitta del fascismo tedesco”. Grossman aveva cassato questo passo, nella speranza di vedere pubblicata un’opera documentaria sulla sorte degli ebrei sovietici, ma tutto era stato inutile. E, forse, proprio questa constatazione lo aveva riportato alla realtà della persecuzione antiebraica, sia che provenisse dal nazismo, sia che provenisse dal comunismo sovietico.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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