Riprendiamo dal FOGLIO di oggi 26/04/2018, a pag. 3, la recensione al libro di Vladimir Zeev Jabotinsky "I cinque" di Vincenzo Pinto.
Vincenzo Pinto
La politica spesso si fa anche con la poesia. Anzi, è la poesia che aiuta a entrare in un mondo lontano e incomprensibile, forse da una finestra. Il romanzo di Vladimir Ze’ev Jabotinsky è il segno che la letteratura sa cambiare il mondo. E non parliamo di mero immaginario. Pensiamo alla realtà concreta di un popolo, alla partenogenesi di una identità.
La copertina (Voland ed.)
Che cosa rimane, infatti, di una famiglia divisa per cinque se non la ricerca di una nuova via? A volte per creare bisogna prima distruggere: questo è il messaggio lanciato dal più grande leader sionista del secolo scorso, che l’astuzia della ragione ha relegato in secondo piano nella costruzione dello stato di Israele, ma al quale la storia ha attribuito e attribuisce oggi i giusti onori. Nel 1936 Jabotinsky è leader di un’organizzazione sionista separatista: quella revisionista. Cogliendo la drammaticità del momento storico, gioca la carta dell’autonomia per salvare il maggior numero possibile di ebrei dall’antisemitismo europeo delle “cose”: tenta di unire le proprie sorti all’Italia fascista oppure alla Polonia nazionalista. Ma trova anche il tempo di lanciare un messaggio di commiato dalla sua amata città: Odessa, la “ginestra” sul Mar Nero, quel luogo di incrocio di culture e nazionalità ormai spazzato via dalla rivoluzione bolscevica. Il porto russo è teatro della disintegrazione di una famiglia ebraica borghese: i Milgrom.
Vladimir Zeev Jabotinsky
Ogni rampollo di questa famiglia si disperderà letteralmente ai sette venti, come i petali di un fiore colpito da una tempesta: c’è chi morirà, chi perderà la vista, chi scomparirà nei fumi della Belle époque e chi, come l’ultimogenito Torik, deciderà di convertirsi al cristianesimo. Un ebraismo senza speranza, dunque? No, anzi: Jabotinsky ritiene invece che la malinconica fine dei Milgrom certifichi unicamente una trasformazione in atto. L’ebreo della diaspora non può più vivere come prima. Deve cambiare passo. Deve trasmutare i propri valori e diventare un sionista, un israeliano. Ma questa trasformazione, qui narrata per via negativa (in forma di “teodicea” sionistica), può ancora definirsi ebraica, giudaica, israelitica? La sensibilità ha ancora spazio in un mondo sull’orlo del baratro? Bisogna “sabrizzarsi”? I dilemmi di un secolo fa vivono ancora oggi in quella meravigliosa follia storica che è Israele. Un forte legame lo lega con il “mondo di ieri”, con un malinconico e nostalgico ritratto di impotenza e di sogni infranti, di “qualità mai realizzate”: il “nevermore” della Shoah che ogni anno ferma per un attimo la vita del “settimo milione”. Ed è il dovere morale di andare avanti che l’io narrante mescola abilmente con la speranza nel domani in questo romanzo su Odessa, ben curato dalla slavista Marta Zucchelli, che ci permette di assaporare un po’ di vita ebraica a tutto tondo. E non è poca cosa, oggi.
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