Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/04/2018, a pag. 27, con il titolo "Il genocidio degli armeni: 'Come si fa a dimenticare?' " il commento di Francesco Semprini.
Francesco Semprini
Una strage di ameni nel 1915
«Avevo sei anni quando siamo scappati dalla nostra casa di Kars. Non siamo più tornati, da quel giorno la nostra è stata una vita violata». Andranik Matevosyan, 106 anni, parla con disarmante lucidità di cose vissute un secolo fa. È un sopravvissuto - uno dei pochissimi ancora in vita - del genocidio armeno, lo sterminio sistematico su base etnica condotto dall’Impero ottomano prima, e dalla Repubblica di Turchia dopo. Uno sterminio che ancora incontra una resistenza diffusa a essere definito «genocidio», status che gli viene riconosciuto da almeno 25 Paesi e 48 su 50 Stati Usa. «Tutto il mondo dovrebbe riconoscere il genocidio», chiosa, «ma questo non succederà».
Adnranik Matevosyan nasce nel 1912 a Kars, in Anatolia orientale, da dove è costretto a fuggire a sei anni. «Mia nonna Shushan venne a sapere da amici turchi che stavano cercando gli armeni per deportarli e ucciderli, le dissero di fuggire. I miei genitori si travestirono, come molti connazionali ci spacciammo per curdi. Molti di noi non ce l’hanno fatta, io sì, ma ho perso i miei due fratelli». La famiglia ripara a Batumi in Georgia, nel 1918, poi a Maykop in Unione Sovietica. Molti armeni, quelli ricchi, venivano deportati in Siberia, «noi non avevamo nulla, ci hanno permesso di rimanere».
Marchio indelebile
Andranik conosce una ragazza, Siranush, «la madre dei miei sette figli». Nel 1937 torna in Armenia a Echmiadzin e poi a Goris. Parte per il fronte, c’è la Seconda guerra mondiale. Sopravvive anche questa volta. Torna a casa. Fa il manovale e costruisce la sua dimora di Sai Tagh, nel distretto di Erebuni, periferia sud-occidentale di Erevan, dove vive ancora oggi con uno dei cinque figli rimasti in vita, la nuora, la figlia del figlio, e due pronipoti piccoli.
Il genocidio è un marchio indelebile impresso sul suo corpo e sulla sua anima, ma nondimeno l’umore è alto. Andranik, nonostante l’anagrafe, è vitale, fa lunghe camminate ogni giorno, guarda molta tv e mangia tanta carne. «Ho detto che mi sarei fatto intervistare solo in cambio della zuppa con lo spezzatino per cena». Approfittiamo del buon umore: è disposto a perdonare? «Come si fa a perdonare una cosa del genere?». Preferirebbe dimenticare? «Come si fa a dimenticare una cosa del genere?». Cosa pensa dei turchi? «Sono sicuro che tra i turchi ci siano brave persone...». Il silenzio tronca la frase come una scure. «Sono cristiano, prego, ma non sempre». A 106 anni sogna ancora? «Sogno la pace, la salute e la leggerezza. Ma soprattutto sono fiero di essere armeno. A proposito, se ci sono armeni in Italia salutatemeli».
Con Adnranik ripercorriamo all’indietro la storia sino al 24 aprile 1915, aveva tre anni il giorno in cui le autorità ottomane arrestarono e deportarono da Costantinopoli (oggi Istanbul) dai 235 ai 270 intellettuali e leader della comunità armena, molti dei quali vennero uccisi. Era l’inizio dello sterminio di almeno 1 milione e mezzo di persone, raccontato dal muro della memoria del Dzidzernagapert, a Erevan, dove in cima all’elenco dei deportati c’è appunto il nome di Costantinopoli.
Campi di concentramento
«Il 24 aprile di ogni anno in centinaia di migliaia vengono al memoriale», dice Gevorg Vardanyan, direttore ad interim dell’Istituto del genocidio armeno. «Nel 2017 in 90 mila hanno visitato il museo aperto nel 1967, sull’onda emotiva del 50° anniversario, e in seguito alle manifestazioni sotto il regime sovietico».
Le testimonianze all’interno rivelano spettrali affinità con l’Olocausto, dai treni ai lager. Ma anche con il più recente sterminio settario dello Stato islamico. Sulla mappa dei campi di concentramento, dove venivano segregati e uccisi migliaia di armeni, spiccano i nomi di Raqqa e Der Azzour, due roccaforti dell’Isis in Siria. La seconda è anche l’ultimo nome che compare sul muro della memoria, punto di arrivo del genocidio. È a questo che, probabilmente, si riferiva Andranik quando alla domanda «se il mondo sia peggiore o migliore adesso», ha risposto: «È uguale, non è cambiato molto».
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