IC7 - Il commento di Enrico Fubini
Dal 15 al 21 aprile 2018
Israele 70 anni
Sono giornate particolari in Israele, giornate piene di tensioni e di tragici ricordi. Prima Yom haShoah, con i sopravvissuti che raccontano le loro storie, la settimana dopo Yom hazikaron, in cui si ricordano i caduti nelle guerre d’Israele ed infine Yom hazmauth, la festosa celebrazione dell’indipendenza. Nessun trionfalismo: il fatto che la celebrazione dell’indipendenza e della nascita dello Stato d’Israele cada a breve distanza dal ricordo dei milioni di morti della Shoà e delle migliaia di giovani vite cadute per difendere lo Stato d’Israele dai nemici da cui è circondato tutt’ora, impedisce che Yom Atzmaut diventi una vuota e retorica celebrazione.
Ogni anno, e forse ancor più quest’anno in cui si celebrano i settant’anni di Israele, questa deve essere una giornata di riflessione, una giornata in cui oltre alla gioia di festeggiare la ritrovata indipendenza e l’esistenza di uno stato in cui tutti gli ebrei del mondo possono trovare non solo un rifugio ma una patria e una terra in cui poter vivere e in cui poter essere protetti e difesi, si deve anche ricordare quante vite umane si sono sacrificate per questa conquista. Festa dunque, giornata di gioia ma quest’anno in particolare non priva di ansie e di ombre. Se rivolgiamo retrospettivamente il nostro sguardo a Israele, oggi, non si può non essere fieri dei risultati raggiunti: un paese in crescita in tutti i sensi. Dal punto di vista economico ha superato brillantemente la crisi mondiale, con un Pil in costante crescita, disoccupazione a livelli minimi, fioritura nel campo delle arti, del cinema, della letteratura, un alto grado di soddisfazione della propria vita da parte dei cittadini – almeno così dicono le inchieste statistiche, commerci in espansione anche con nuovi paesi con cui si sono allacciati nuovi e solidi rapporti. Tutto bene, dunque. Ma se è giusto considerare il bicchiere mezzo pieno, non si può non avvertire nel paese un senso di inquietudine e di ansia per vecchi e nuovi urgenti problemi da affrontare che hanno a che fare con la stessa sopravvivenza del paese e la cui soluzione non è solo nelle mani di Israele ma che sono legati ad una situazione generale di un Medio Oriente sempre più minaccioso e turbolento. Sullo sfondo il problema dell’Iran, paese che ormai non è più così lontano come pochi mesi or sono: le sue truppe e le sue basi militari sono alle nostre frontiere; gli Hezbollah sempre più minacciosi e sempre più armati alla nostra frontiera nord. L’intricato problema della Siria e dei suoi ingombranti alleati coinvolge ogni giorno di più anche Israele che deve calibrare con molta attenzione ogni sua mossa. Un’altra grossa preoccupazione è la constatazione di un antisemitismo crescente in tutto il mondo, a volte rozzamente mascherato da anti sionismo. Ed infine il problema di Gaza che proprio in queste ultime settimane è diventato più scottante ed ha assunto una dimensione internazionale grazie alla spregiudicatezza e al cinismo dei suoi dirigenti. In questo panorama, tutt’altro che tranquillizzante, il problema palestinese sembra scivolato nell’ombra e per l’opinione pubblica ha assunto un ruolo secondario. Gli stessi paesi arabi circostanti sembra che oggi siano maggiormente interessati a problemi più urgenti. Ciò non vuol dire che il problema non esista più: attende proposte di soluzione che possano superare con fantasia politica oggi assente un immobilismo che alla lunga non può giovare a nessuno.
Se questi sono problemi di vasta portata in cui Israele è solo una delle parti in causa, ma che deve comunque gestire per quello che le concerne con saggezza e lungimiranza, non mancano i problemi interni che agitano l’opinione pubblica e che contribuiscono a generare questo stato di ansia e di malessere. I trentottomila migranti illegali che provenivano in gran parte dall’Eritrea e dal Sudan, concentrati da oltre dieci anni in un quartiere depresso di Tel Aviv il cui destino non è tuttora ben chiaro, divide Israele, e richiede una soluzione non solo politica ma anche umanitaria da parte di un governo troppo oscillante tra posizioni diverse a causa della sua composizione così eterogenea. I rapporti tesi e non chiari tra governo e Corte suprema che ne aveva bloccato l’espulsione, ne sono una delle espressioni più evidenti. In questi giorni in cui si sono ascoltate alla televisione le voci degli ultimi sopravvissuti della Shoah si è nuovamente parlato di un problema che da anni ritorna alla ribalta ma senza una soluzione pratica che pur dovrebbe e potrebbe esserci, cioè della penosa situazione economica in cui vivono molti di loro, con sussidi del tutto insufficienti a garantire loro una vita decorosa. Mille altri problemi esistono in Israele come in tutti gli Stati del mondo, di più o meno facile o difficile soluzione, che vanno affrontati per garantire un equilibrato sviluppo del paese dal punto di vista sociale ed economico.
Le celebrazioni dell’Indipendenza, la gioia e la legittima soddisfazione per i risultati raggiunti, devono essere anche un’occasione per una seria riflessione sul bicchiere che è sì mezzo pieno, ma che non deve farci dimenticare i problemi anche interni la cui soluzione è in buona parte nelle mani di Israele e dei suoi governanti. L’inquietudine che serpeggia oggi nel paese e che purtroppo è dovuta in buona parte a fattori internazionali, a minacciosi venti di guerra non certo voluti da Israele e che sfuggono alle sue possibilità di controllo, non deve farci trascurare i problemi interni che possono invece essere gestiti e risolti con saggezza ed equilibrio dal governo del paese.
Enrico Fubini, già docente di Storia della musica presso l'Università di Torino