Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/04/2018, a pag. 25 con il titolo "Cè il nodo dell’Iran dietro il duello siriano tra Trump e Putin", il commento di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
Il braccio di ferro in corso in queste settimane fra Trump e Putin, culminato nella recente azione militare congiunta fra Usa, Francia e Gran Bretagna in Siria, ha un terzo protagonista che a breve tornerà sulla scena: l’Iran.
Bashar al Assad con Vladimir Putin
L’Iran rappresenta per Mosca in più solido alleato nel grande Medio Oriente, e il dossier sul nucleare iraniano (l’Iran Deal siglato da Obama ed Europa) viene riletto in queste ore con una nuova lente d’ingrandimento: quella del confronto in corso con la Russia di Putin.
E non è un caso che all’incontro di pochi giorni fa in Lussemburgo fra i ministri dei ventisette Paesi europei, la discussione sulle sanzioni a Mosca e Teheran abbia tenuto banco sullo stesso tavolo.
La prossima scadenza del 12 maggio, quando Trump dovrà decidere sul destino dell’accordo sul nucleare iraniano, assume un nuovo e più ampio significato geo-politico ed è sempre più difficile separare i due dossier.
Donald Trump
Anche sotto questa chiave va analizzata la richiesta americana agli alleati di aumentare la pressione sull’Iran (con nuove sanzioni) per ridurre la sua accresciuta capacità di esportare instabilità e insicurezza ben al di fuori dei propri confini.
Il diretto coinvolgimento militare iraniano in Siria, che fra milizie di Hezbollah, consiglieri e militari della Repubblica Islamica sul campo viene stimato fra le 30-50.000 unità, è stato un vero valore aggiunto all’intervento militare russo per salvare Assad: i «boots on the ground» iraniani hanno dato forza e sostanza terrestre all’intervento aero-navale russo.
Ma in palio c’è di più che non la sola Siria: si tratta di mettere un freno al «grande gioco» iraniano nella regione che punta a realizzare quel corridoio geografico pan-sciita fra Teheran e Beirut, che Israele considera una minaccia esistenziale e l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman una sfida inaccettabile.
Al Dipartimento di Stato, soprattutto dopo la partenza di Tillerson, è cresciuta l’attenzione nei confronti dell’Iran ed è guardata con preoccupazione crescente l’esportazione del «modello Hezbollah» nel grande Medio Oriente.
Si tratta di quel modello efficace di export globale di instabilità, insicurezza e terrorismo, coordinato dal generale Qassem Soleimani, capo della Brigata «Niru-ye Qods» (la Brigata Gerusalemme), l’unità delle Guardie Rivoluzionarie che ha il compito di armare e finanziare il network degli amici e alleati dell’Iran.
Hezbollah nel sud del Libano; Hamas nella Striscia di Gaza; le milizie sciite di Hashd al-Shaabi in Iraq; le milizie Houthi nel nord dello Yemen; la galassia dei gruppi militari sciiti in Siria.
In tutti questi casi l’elemento «innovativo» è stato rappresentato dalla creazione di entità «quasi-statuali» che sfuggono al controllo dei Governi centrali: Hezbollah controlla politicamente, economicamente e militarmente quasi un terzo del Libano, comprese le sue frontiere meridionali, e tiene sotto scacco la fragilissima democrazia libanese; Hamas ha sottratto la Striscia di Gaza al controllo dell’Autorità Palestinese e minaccia ogni giorno la sicurezza di milioni di cittadini di Israele; le milizie sciite di Hasd al-Shaabi hanno guidato la breve guerra contro il migliore alleato dell’occidente in Iraq, strappando Kirkuk dal controllo del Governo regionale Kurdo; le milizie Houthi hanno dichiarato una guerra aperta al governo yemenita, lanciando missili fino a Ryad.
Il filo al quale è appeso l’accordo sul nucleare iraniano è dunque sempre più sottile e proprio la nuova esigenza di frenare l’espansionismo regionale dell’Iran per «contenere» la Russia, potrebbero definitivamente spezzarlo.
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