Ebrei in Romania
Analisi di Giuliana Iurlano
Una famiglia di ebrei rumeni a inizio Novecento
Il trattamento degli ebrei rumeni è stato oggetto di interventi internazionali molto prima della creazione del Regno di Romania, ai tempi dei Principati danubiani di Moldavia e Valacchia. Qui, nel periodo in cui i principali paesi europei estendevano anche agli ebrei i diritti civili e politici, vigevano ancora le antiche leggi medievali antiebraiche, ampliate – agli inizi dell’Ottocento – da una nuova legislazione ancora più restrittiva sul piano della libertà personale e della sicurezza economica. Dopo la guerra di Crimea, lo status degli ebrei romeni trovò posto tra gli argomenti di discussione nella Convenzione di Parigi del 1858: in verità, il riferimento all’eguaglianza riguardava i moldavi e i valacchi della Chiesa greco-ortodossa, ma si stabiliva anche che il godimento di tali diritti poteva essere esteso ad altre religioni attraverso disposizioni legislative (art. XLVI). L’espressione “altre religioni” era naturalmente riferita agli ebrei, ma essi non trassero alcun beneficio da tale clausola: se la loro situazione cambiò, cambiò solamente in peggio, esempio, questo, tipico della politica antiebraica del Regno di Romania, caratterizzata, in ambito internazionale, da promesse mai mantenute.
Ebrei di Braila, Romania
Il Dipartimento di Stato americano, investito del problema dal Board of Delegates of American Israelites, intervenne una prima volta nell’estate del 1867, per bocca del rappresentante americano a Costantinopoli, Edward Joy Morris, minacciando un deterioramento delle relazioni tra Washington e Bucarest se la politica persecutoria non fosse terminata. Nel 1870, il Presidente Grant nominò un ebreo, Benjamin Peixotto, come console americano a Bucarest; l’azione di Peixotto fu determinante: nell’aprile del 1872, infatti, sollecitò una nota da parte del Segretario di Stato Hamilton Fish ai Consoli americani delle principali capitali dell’epoca, che a loro volta indirizzarono delle note al Ministro degli Esteri rumeno, accompagnate da lettere collettive di protesta (mancava soltanto quella del Console russo), in cui si chiedeva l’immediata liberazione di molti ebrei ingiustamente arrestati.
L’azione congiunta risultò efficace e Peixotto consigliò a Fish di inviare un dispaccio ai rappresentanti delle potenze firmatarie del Trattato di Parigi perché intervenissero a favore degli ebrei rumeni. La cosa interessante è che il governo americano si prodigò molto in questa direzione, nonostante il fatto che gli Stati Uniti non avessero preso parte alla sottoscrizione del trattato e, dunque, non avevano alcun titolo che legittimasse le loro rimostranze nei confronti del Governo rumeno. Quali furono le reazioni? A parte la piena convergenza d’intenti manifestata dal Governo britannico, l’atteggiamento delle altre potenze andò dalla precisazione francese e tedesca di insistere nella difesa di tutte le confessioni religiose, ai dubbi manifestati dall’Impero austro-ungarico sull’efficacia di una tale azione, al ridimensionamento del problema da parte del Governo di Costantinopoli, alla negazione totale – da parte del Governo zarista – che vi fosse stata alcuna persecuzione o violazione della Convenzione di Parigi da parte della Romania. Interessante è la posizione italiana, che – tramite George Wurts, rappresentante americano a Roma – avvisò il Governo degli Stati Uniti che sarebbe stato meglio intervenire a San Pietroburgo, perché solo da lì, infatti, si sarebbe potuto ottenere un reale miglioramento della condizione degli ebrei rumeni.
Peixotto – uomo di spiccata equità di giudizio e di grande generosità (riuscì, infatti, a distribuire sempre tutto il denaro raccolto in Europa e in America per aiutare i perseguitati) – si adoperò incessantemente affinché venisse convocata una Conferenza ebraica a Bruxelles per discutere della situazione in cui versavano gli ebrei rumeni. L’occasione giunse dopo la guerra russo-turca del 1877 e il conseguente Trattato di Santo Stefano, quando le Potenze europee si riunirono a Berlino per discutere le condizioni di pace. In tale contesto, alcune delegazioni ebraiche francesi, inglesi e statunitensi insistettero perché, accanto alla creazione di un Regno rumeno indipendente, venisse affrontata anche la questione ebraica. Ed effettivamente, l’art. V del Trattato di Berlino sanzionò l’assoluta libertà ed eguaglianza delle fedi e dei culti religiosi, mentre l’art. XLIV faceva un espresso riferimento alla Romania proprio in merito al fatto che il nuovo Stato avrebbe dovuto garantire libertà di culto a tutti, con delle leggi specifiche in tal senso. Da parte americana, il riconoscimento del nuovo Stato fu subordinato alla promessa di leggi apposite sulla libertà religiosa anche nei confronti degli ebrei. Il problema, naturalmente, non trovò soluzione, ma Benjamin Peixotto – che prima dell’incarico era stato Gran Maestro dell’Ordine di B’nai Brith – rimase sicuramente nella memoria collettiva ebraico-statunitense come uno dei più importanti rappresentanti della diplomazia umanitaria ottocentesca.
Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta