Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/04/2018, a pag. I con il titolo "Dov'è la guerra imperialista?", l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Bashar al Assad Hassan Nasrallah
I commentatori spiazzati A questo punto l’imbarazzo per alcuni commentatori dev’essere terribile. Per tutta la settimana intercorsa tra la strage di civili siriani con armi chimiche di sabato 7 aprile a Duma e l’azione militare di sabato 14 mattina hanno spiegato che era in arrivo una nuova guerra di aggressione americana. Che i civili uccisi erano una messinscena, un pretesto per imporre un altro capitolo di interventismo imperialista in medio oriente. Che i morti soffocati erano “fake news per creare il casus belli”. Che era tutta una riedizione dell’Iraq 2003, quando l’invasione americana fu preceduta dalla falsa notizia delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (che poi non era proprio del tutto pulito, chiedere alle famiglie dei non meno di tremiladuecento curdi sterminati con il gas dall’esercito iracheno nel marzo 1988 a Halabja durante la campagna genocida Anfal). Che era una replica dell’intervento Nato in Libia del 2011. Che era una manovra dei sauditi o degli israeliani oppure di entrambi per buttare giù il presidente siriano Bashar el Assad – tesi suggestiva che attira clic e lettori e condivisioni sui social media e tuttavia è offerta ai lettori creduloni senza l’ombra di una prova. C’è addirittura chi ha avvertito che la Nato sarebbe stata trascinata nella guerra, e con essa anche l’Italia. L’unico precedente che contava qualcosa è stato ignorato: si tratta del raid missilistico americano contro l’aeroporto militare di al Shayrat nell’aprile 2017 dopo un bombardamento con il gas nervino che aveva ucciso cento civili vicino Idlib, un raid così limitato che non ottenne alcun effetto di deterrenza. La ritorsione militare contro la Siria è arrivata alle quattro del mattino locali e ha raso al suolo tre obiettivi che fanno parte del programma siriano per la produzione e lo stoccaggio delle armi chimiche. A differenza della guerra in Iraq durata otto anni e dell’intervento Nato in Libia durato otto mesi è durata meno di un’ora. Gli edifici erano deserti perché erano stati evacuati. Il governo francese ha detto di avere avvertito in anticipo i russi ed è possibile che i russi abbiano condiviso l’avvertimento con i loro alleati siriani e iraniani. Il numero delle vittime varia tra zero e uno. Il Pentagono nel primo briefing in contemporanea con la fine dell’attacco ha spiegato che si era trattato di un colpo singolo, “one shot”, e che non si sarebbe ripetuto. Dodici ore dopo la fine dei bombardamenti, nel pomeriggio italiano, ci sono state manifestazioni sparse contro “la guerra imperialista”– forse il primo caso nella storia di proteste per fermare una guerra che cominciano quando la guerra è già finita. La logica fallata di chi diceva che la strage era una messinscena organizzata per provocare una guerra è stata messa a nudo. Nessuno vuole un regime change a Damasco in questo momento e questo vale specialmente per i tre governi che hanno partecipato all’azione militare, America, Francia e Gran Bretagna. L’Amministrazione Trump insegue una politica molto nazionalista e molto poco universale, il suo motto è America First, e non ha interesse a gestire un’ipotetica deposizione di Assad a Damasco. Il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro inglese Theresa May non hanno semplicemente le forze – oltre che la volontà politica – per vagheggiare un regime change da soli in medio oriente nel 2018. C’è una vecchia boutade che dice che i generali sono sempre perfettamente preparati a vincere l’ultima guerra, per dire che ogni conflitto è diverso e dev’essere studiato come un fatto nuovo. Forse vale anche per gli altri, per chi è rimasto fermo al marzo 2003 e si ostina ad applicare lo stesso schema e gli stessi slogan alla Siria del 2018. La guerra non c’è stata, nessuno era a caccia di un pretesto, nessuno ha le forze per deporre Assad adesso: perché allora qualcuno avrebbe dovuto inscenare un bombardamento con armi chimiche? I commentatori faranno finta di nulla.
Mosca blocca l’Opcw Il governo russo ha preso due posizioni a proposito dell’inchiesta internazionale sulla strage di Duma: prima e dopo il raid punitivo. Fino a due giorni prima del raid la linea ufficiale del governo russo era che il 7 aprile non c’è stata alcuna strage di civili con armi chimiche a Duma. I russi sono stati i primi ad arrivare e a occupare il sito del bombardamento dopo la resa dei ribelli e l’evacuazione dei civili e a dispetto della mole di testimonianze dirette, delle centinaia di casi di soffocamento accertati dai medici, dei cadaveri, delle immagini e dei video hanno detto che non c’era alcun segno di un bombardamento chimico. Tre giorni dopo, quando Trump ha annunciato l’intervento militare, il governo siriano ha invitato a Duma gli ispettori dell’Opcw (l’Organizzazione internazionale per la proibizione della armi chimiche) e il governo russo ha detto che gli americani avrebbero dovuto aspettare i risultati dell’inchiesta prima di lanciare un attacco punitivo. Venerdì il governo russo ha rettificato la versione, ha detto che la strage è stata una messinscena organizzata e diretta dal governo inglese e ha anche detto di avere “prove certe” che però non ha mostrato. A partire da sabato mattina però, una volta che il raid si è consumato senza troppi danni, la posizione russa è mutata. Il lavoro degli ispettori Opcw doveva funzionare come ritardante per guadagnare tempo e come elemento da citare con i media – “Gli americani non aspettano i risultati delle analisi!” – mentre adesso potrebbe essere controproducente. Poche ore dopo i missili occidentali Mosca ha detto che il rapporto dell’Opcw sul caso Skripal – è uscito giovedì e conferma l’uso di un agente nervino inventato dall’Unione sovietica nel tentato omicidio di un disertore dell’intelligence russa vicino Londra – è falso e che l’Opcw non è un’organizzazione credibile. Nel frattempo gli ispettori dell’Opcw invitati martedì erano atterrati a Damasco. Ieri la Russia e il governo siriano li hanno bloccati e non hanno consentito loro l’accesso a Duma perché – hanno detto – “manca il permesso delle Nazioni Unite e la situazione è poco sicura”, pur sapendo che nelle indagini di questo tipo il fattore tempo è importante. L’ultima volta che una missione Opcw aveva indagato su una strage con armi chimiche in Siria aveva stabilito la colpevolezza del regime siriano, è successo a ottobre 2017. Un paio di settimane dopo la Russia mise il veto al Consiglio di sicurezza sul prolungamento della missione e di fatto la sciolse.
E Sigonella? In Italia si è parlato del fatto che la crisi siriana avrebbe potuto imprimere un’accelerazione alla formazione del governo e che la base aerea di Sigonella avrebbe avuto un ruolo centrale nelle operazioni di guerra – e che questa partecipazione rischiava di diventare un caso politico lacerante. In realtà ci siamo attribuiti più importanza di quella che effettivamente abbiamo. I bombardieri B-1 americani che hanno partecipato al raid di sabato mattina sono partiti dalla base di al Udeid, in Qatar – come del resto fanno tutti gli aerei americani che bombardano le posizioni dello Stato islamico in Siria dal settembre 2014. I Rafale francesi sono partiti dal territorio francese e sono stati riforniti in volo. I Tornado e i Typhoon inglesi sono decollati dalla base di Akrotiri, a Cipro. Per quanto riguarda i missili, sono stati lanciati da unità in navigazione nel Golfo, nel mar Rosso e nel settore est del Mediterraneo.
Gli obiettivi degli israeliani Gli israeliani non commentano mai – o quasi mai – i loro raid aerei in Siria ma è probabile che siano affascinati dalla reazione così selettiva dell’opinione pubblica internazionale. Due dei tre centri colpiti dalla ritorsione occidentale. Barzeh e Jamrayah, erano già stati bombardati – ma non distrutti – dai loro jet negli ultimi otto mesi, a settembre e poi ancora a dicembre e febbraio, e in pratica non ne ha parlato nessuno. E’ dal gennaio 2013 che gli israeliani bombardano in Siria, un raid circa ogni venti giorni, con lo stesso obiettivo dei governi occidentali: prevenire l’accumulo e il trasferimento di armi sofisticate o di distruzione di massa, ma tutte le loro operazioni combinate suscitano una frazione infinitesima dell’attenzione sollevata da un singolo tweet di Donald Trump. Di sicuro hanno notato da tempo che i due centri per la produzione e lo stoccaggio delle armi chimiche colpiti a ovest di Homs – come dice l’anali - sta Michael Horowitz – sono a pochi chilometri dal confine libanese e a poca distanza dalla strada che taglia attraverso le montagne e porta in Libano, dove c’è il cuore territoriale del gruppo armato Hezbollah alleato degli iraniani e del governo siriano. Che quella posizione sia stata scelta per rendere più facile un trasferimento d’emergenza delle armi chimiche dalla Siria al Libano? Il giorno dopo la strage di Duma gli israeliani hanno bombardato la base T-4, nel deserto siriano vicino Palmira e hanno ucciso una squadra delle Guardie della rivoluzione iraniane che si occupa di missioni con i droni, incluso il colonnello che li comandava – e come al solito questa è un’informazio - ne che Israele non riconosce ufficialmente, tanto che il raid è stato scambiato per una reazione americana. Thomas Friedman ha scritto sul New York Times ieri che il drone iraniano che a febbraio è stato abbattuto mentre varcava il confine israeliano non era soltanto da ricognizione, ma era armato. Da mesi guardiamo molto la punta del dito, come l’intervento “one-off” di sabato mattina, e non vediamo la luna, israeliani e iraniani che cominciano a combattere e a uccidersi direttamente senza più agire tramite alleati e partner locali.
Missili contro missili Il governo russo ha detto sabato che il sistema di difesa aerea siriano ha abbattuto 71 dei 105 missili occidentali. Ieri ha corretto la stima e ha detto che soltanto i bersagli non coperti dalla difesa aerea sono stati colpiti, per il resto le intercettazioni hanno funzionato al cento per cento. In pratica i russi dicono che se vogliono possono bloccare tutti i missili lanciati dagli americani, ed è terribilmente poco credibile. Il Pentagono dice invece che i siriani hanno sparato 40 contromissili quando ormai però era troppo tardi, in pratica hanno cominciato a reagire mentre l’ultima bordata di missili stava colpendo i bersagli. E’ una ovvia guerra di versioni contrastanti, ma i russi fin dal settembre 2015 giocano sul fatto che la loro presenza in Siria funziona come un ombrello protettivo contro qualsiasi attacco esterno ed è chiaro che non è così. Non solo, ma se contavano sul fatto che l’operazione in Siria fosse una buona occasione per esibire la loro tecnologia bellica di fronte a possibili acquirenti adesso devono rifare i conti, perché gli aggressori hanno centrato gli obiettivi lanciano di missili da tre mari diversi e non c’è stata alcuna capacità solida di deterrenza – a dispetto del fatto che mercoledì l’ambasciatore russo in Libano avesse minacciato: “Abbatteremo tutti i missili e colpiremo i siti di lancio”, quindi le navi americane. Simpatizzanti del presidente Assad fanno circolare presunte fotografie dei resti di missili americani intercettati e abbattuti, ma gli esperti hanno già smontato questo tentativo: sono fotografie di resti di missili russi SS 21 Tochka.
Tra credibilità e idealismo Siamo stati testimoni di un evento molto raro: un’azione militare lampo di tre governi occidentali giustificata da un motivo pratico puramente umanitario, la necessità di evitare la “normalizzazione della guerra chimica”. Naturalmente si possono individuare altri motivi di fondo, la voglia di Donald Trump di deflettere l’attenzio - ne dai suoi guai giudiziari, l’obbligo di conservare la credibilità davanti al resto del mondo, il tentativo riuscito di lanciare un messaggio anche per quanto riguarda altre aree – dai Paesi baltici che si sentono minacciati dalla vicinanza con la Russia fino alla Corea del nord – l’avvertimento all’Iran che sta usando la Siria come una base militare. Ma il significato politico rimane, l’occidente non è totalmente inerte e le stragi di civili possono ancora avere conseguenze.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante