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La Stampa Rassegna Stampa
15.04.2018 Siria: ecco dove si nascondono le armi chimiche di Assad
Commento di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 15 aprile 2018
Pagina: 2
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «I gas del regime utilizzati in zone dove è impossibile fare ispezioni»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/04/2018, a pag. 2, con il titolo "I gas del regime utilizzati in zone dove è impossibile fare ispezioni", il commento di Giordano Stabile.

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Giordano Stabile

Chi, che cosa, quante volte, perché. Gli attacchi chimici in Siria sono una guerra nella guerra, combattuta sul campo ma anche nei laboratori e dalle macchine della propaganda. Abbondano i complottismi ma c’è una ragione molto concreta sul perché di questa nebbia mai dissipata del tutto, neppure dall’Onu. La stragrande maggioranza degli attacchi si sono verificati in zone impossibili da raggiungere in tempi rapidi da équipe indipendenti. Le «scene del crimine» sono state sottoposte, o si sospetta siano state, a manipolazioni di tutti i tipi. C’è una eccezione, ed è l’ultimo attacco a Douma. Ieri sono arrivati a Damasco gli ispettori dell’Opac, l’agenzia dell’Onu per la proibizione delle armi chimiche. Hanno la possibilità, per la prima volta, di indagare su un sito a pochi giorni dal presunto raid. Un’occasione unica per mettere fine a sette anni di incertezza.

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Le vittime di una strage compiuta con armi chimiche. Il responsabile: Assad

La guerra chimica siriana si divide in tre tappe. La prima va dal 2011 all’agosto dal 2013. Già all’inizio dell’insurrezione contro Bashar al-Assad si registrano sporadici attacchi con cloro. Poi, dalla primavera del 2013, c’è una escalation. Vengono denunciati tre attacchi con il sarin, terribile gas nervino. Il 19 marzo a Khan al-Assal, il 29 aprile a Sarabiq, vicino ad Aleppo, e infine, il 21 agosto nella Ghouta orientale, il peggior attacco, con quasi 1400 morti. Arriva la prima svolta. Il presidente americano Barack Obama prepara i raid, assieme alla Francia, poi ci ripensa e punta allo smantellamento dell’arsenale di Assad.

La Siria non ha mai firmato la Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche. Le ha sviluppate come «deterrenza» nei confronti dell’arma atomica posseduta da Israele. Il 23 settembre Assad informa il Segretario generale dell’Onu che la Siria è pronta ad aderire alla Convenzione. Parte la missione dell’Opac. Il 31 ottobre dichiara che la Siria «ha distrutto tutti i macchinari e depositi dichiarati». Il materiale più pericoloso, 1290 tonnellate di iprite e sarin, viene incenerito su navi speciali, vicino alle coste italiane. Una stima, non ufficiale, valuta che il 97 per cento dell’arsenale è distrutto, mentre il resto si trova in zone non accessibili, perché alla fine del 2013 il governo controlla solo il 30% del territorio.

Qualcosa può essere caduto in mano ai ribelli. Sono accertati attacchi con gas iprite da parte dell’Isis contro i guerriglieri curdi nel 2014. Ma gli insorti, secondo la stragrande parte degli analisti, non sono in grado di condurre attacchi con gas nervini, troppo difficili da gestire. La «linea rossa», per le potenze occidentali, resta quella: l’uso del sarin o simili. Fra il 2014 e il 2017 ci sono attacchi sporadici, quasi tutti con il cloro. Human rights watch registra 85 attacchi dal 2013 e il 2018, per i due terzi di responsabilità del governo. La Commissione di inchiesta internazionale sulla Siria conferma 34 attacchi «attribuibili al governo» dal 2013 in poi, ma soltanto due con gas nervini, avvenuti prima della distruzione dell’arsenale. Fino al 4 aprile del 2017 con il massacro a Khan Sheikhoun.

Un razzo armato di gas nervini uccide almeno 80 persone. Tre giorni dopo il presidente Donald Trump ordina l’attacco contro la base aerea di Shayrat. Damasco e Mosca negano la responsabilità del raid chimico. L’Opac viene coadiuvata dall’Onu in un Joint Investigation Mechanism, detto Jim, con il compito di individuare il responsabile. Già il 4 maggio i servizi americani e britannici fanno trapelare che il regime «ha ripreso la produzione di munizioni chimiche e biologiche» nei centri di ricerca di «Masyaf, Dummar e Barzeh». Nell’ottobre del 2017 il Jim conferma al Consiglio di sicurezza dell’Onu che la responsabilità è dei governativi. Damasco e Mosca ribattono che l’indagine è «viziata» perché la «scena del crimine» è in mano a gruppi jihadisti e l’indagine si basa soprattutto su immagini girate dai ribelli e su «testimonianze raccolte in Turchia». Ora l’inchiesta su Douma deve sciogliere tutti i dubbi.

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direttore@lastampa.it

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