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Il Foglio Rassegna Stampa
12.04.2018 Siria: per l'Italia è l'ora delle scelte, la posizione di Donald Trump, Theresa May
Commenti di Giuliano Ferrara, Daniele Raineri, Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 12 aprile 2018
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara - Daniele Raineri - Paola Peduzzi
Titolo: «Per il governo è l’ora di un aut aut - I missili di Trump - L’intervento di May»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/04/2018, a pag.1 con il titolo "Per il governo è l’ora di un aut aut", il commento di Giuliano Ferrara, con il titolo "I missili di Trump", il commento di Daniele Raineri; con il titolo "L’intervento di May", il commento di Paola Peduzzi.

Ecco gli articoli:

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Bashar al Assad                  Hassan Nasrallah

Giuliano Ferrara: "Per il governo è l’ora di un aut aut"

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Giuliano Ferrara

Mattarella ha una responsabilità che va ben oltre il Consiglio europeo di giugno in cui si gioca il futuro dell’Unione europea e la stessa governabilità del sistema economico e politico italiano. Ha una responsabilità decisiva, e immediata, in quanto presidente della Repubblica, capo delle Forze armate e capo del Consiglio supremo di difesa. Da un lato c’è la sovranità del corpo elettorale, attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa, validi in regime maggioritario, figuriamoci in regime di proporzionale (due terzi di proporzionale, è la legge su cui si è votato). O c’è una maggioranza o non c’è, non ci vogliono mesi per comporla con un contratto alla tedesca, che allo stato dei fatti è con ogni evidenza una farsa di contratto all’italiana. Ci sono venti di guerra in Siria, e un confronto duro tra occidente e Russia su Assad e le armi chimiche. Lo spettacolo di un paese dei balocchi bloccato da due ragazzini che hanno vinto una lotteria demagogica è indecente. O formano un governo alleandosi come possono, e le conseguenze se le assumono fino in fondo, oppure il governo Gentiloni deve essere rinviato alle Camere. Se non ha una maggioranza, e non ce l’ha, il Parlamento si scioglie e si rivota. E Gentiloni resta in carica a tutti gli effetti, con una rilegittimazione presidenziale e copertura istituzionale assoluta. Per certi aspetti quella che sembrava questione di settimane e di mesi, di elezioni in Friuli o in Molise, è diventata questione di giorni, se non di ore. Le scuse elettorali di calendario fanno pena. Non si votava sotto la neve, si è votato sotto la neve. Si potrà votare anche con un po’ di caldo. La politica non sopporta vuoti tanto abnormi, e la danza postelettorale rischia di diventare una danza macabra. E’ il momento di un aut aut. Non è che possiamo assistere da spettatori primaverili con la capa fresca all’inverno geopolitico in preparazione. Con incarichi esplorativi al buio. Con politiche di sicurezza ed estere da definirsi con la giostra dei cavallini rampanti. O quei due si accordano per un governo, com’è purtroppo loro diritto, e definiscono una lista di ministri tra i quali difesa, esteri e gli altri, e un premier concordato e una linea europea e occidentale (forse) di alleanze e solidarietà, oltre i selfie sulla Piazza Rossa e altre amenità, oppure devono passare la mano al Quirinale che ha il compito gravoso di garantire la continuità e la saldezza istituzionale necessaria in una scena internazionale come quella che si sta profilando. E’ semplice, drammatico se volete, ma serio e grave davvero, per una volta.

Daniele Raineri: "I missili di Trump"

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Daniele Raineri

Roma. C’è da dire che il presidente americano Donald Trump parla dello scenario siriano in un format finalmente comprensibile a tutti: “Preparati Russia, i nostri missili belli e nuovi e smart stanno arrivando – ha scritto in un tweet ieri nella mattinata americana – Non dovevi metterti con l’Animale che ammazza con il gas, che uccide il suo popolo e ci si diverte pure”. Il messaggio presidenziale fa parte di un’escalation di minacce facili che Russia e America si sono scambiate nelle ultime ventiquattr’ore, ma gli aspetti pratici dell’intervento erano ancora da definire, come ha detto il capo della Difesa americana Jim Mattis. Più passano le ore e più il lavoro degli analisti del Pentagono che devono scegliere i bersagli giusti da colpire durante l’annunciata azione punitiva contro il governo del presidente Bashar el Assad in Siria diventa complicato. Se l’intervento fosse troppo blando si ripeterà l’insuccesso sostanziale dell’aprile 2017, quando l’Amministrazione Trump lanciò una bordata di 50 missili Tomahawk contro la base militare di al Sheyrat, uccise sei soldati siriani (i russi avvertiti in anticipo erano andati via) e non ottenne l’ef - fetto di deterrenza che sperava, perché un anno dopo il mondo guarda a una situazione di stallo identica. Se invece l’intervento fosse troppo duro metterebbe a repentaglio la tenuta del presidente Bashar el Assad sul paese e non è quello che l’Amministrazione Trump vuole – a dispetto di quello che dicono i propagandisti a cui piace seminare panico sui social media. Inoltre c’è il rischio che l’attacco punitivo colpisca anche militari russi presenti in Siria e anche questo è un esito che il Pentagono non vuole, perché c’è il rischio di un’escalation. Insomma, il criterio base che guida gli analisti è che i missili servono a stabilire un principio di deterrenza, questo: Assad non deve usare più le armi chimiche contro i civili siriani altrimenti sarà colpito da un intervento esterno. I missili non servono a scatenare una guerra americana con la Russia in medio oriente. I bersagli siriani e i loro alleati si stanno spostando o comunque tentano manovre diversive: la guarnigione di al Bukamal, al confine con l’Iraq, ha ammainato la bandiera siriana e issato quella russa. Il gruppo libanese Hezbollah ha evacuato le sue basi ad al Qusayr, sul confine libanese, e nell’area di Homs. L’aviazione siriana sta spostando i suoi pezzi più pregiati nella base russa di Hmeimim, vicino Latakia, la stessa dove a dicembre il presidente russo Vladimir Putin annunciò per la terza volta il ritiro della Russia dalla Siria.

Le undici navi russe alla fonda nel porto di Tartous hanno tutte preso il largo. Il canale multilingue dell’informazione russa su internet, Sputnik, ha confermato che la famiglia Assad non ha lasciato la Siria, per rispondere a chi dice che il presidente siriano ha abbandonato il palazzo presidenziale di Damasco. Il tweet di Trump rispondeva a una minaccia diretta che due giorni fa era stata fatta dall’ambasciatore russo in Libano: “Abbatteremo tutti i missili americani e faremo fuoco contro le postazioni di lancio”, quindi contro le navi americane, ma soprattutto contro la stessa minaccia fatta già il 13 marzo dal capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Il generale immaginava con 26 giorni di anticipo che ci sarebbe stata una strage con armi chimiche e metteva le mani avanti contro la reazione americana. Preveggenza? Le parole di Gerasimov, rilanciate dai cultori della teoria della false flag, tradiscono che il comando russo e il comando siriano a Damasco erano in disaccordo sulla tattica per espugnare l’ultima enclave ribelle di Damasco, Duma, una cittadina più o meno grande come Sirte in Libia, ma difesa da ottomila combattenti del gruppo Jaish al islam. Prendere Sirte, dove i combattenti dello Stato islamico erano al massimo duemila, richiese sei mesi di tempo e migliaia di perdite. I russi erano impegnati in un negoziato laborioso con il Jaish al islam, che però si era arenato proprio il giorno prima dell’attacco con armi chimiche. Forse Gerasimov sapeva questo: che gli assadisti erano pronti a forzare la mano agli assediati con le armi non convenzionali. Nella Ghouta, quindi vicino all’area della strage di sabato, ieri è apparso davanti alle telecamere Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema iraniana Ali Khamenei, e ha minacciato presto una rappresaglia contro Israele, colpevole di avere ucciso sette Guardie della rivoluzione vicino Palmira durante un raid domenica notte. C’è la possibilità che Israele e Iran guardino a questa crisi internazionale come all’ennesima opportunità per regolare i conti fra loro in Siria e si osservano da in mezzo al polverone alzato dai loro partner.

Paola Peduzzi: "L’intervento di May"

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Paola Peduzzi

Milano. Passare dal Parlamento o dare il via alla missione di rappresaglia contro l’utilizzo di armi chimiche in Siria senza sentire il parere dei parlamentari? Le democrazie occidentali alle prese con la guerra si trovano spesso di fronte a questa decisione, e a Londra in particolare la scelta pesa. Perché le pressioni sul governo sono già molto forti, perché c’è la ferita irachena che non si vuole rimarginare – anzi, appena si parla di dittatori e di interventi militari sanguina – e perché nel 2013, quando l’attacco al regime di Bashar el Assad era imminente (lo voleva il presidente americano, Barack Obama, dopo la strage chimica che uccise 1.300 persone) e gli aerei da guerra erano già pronti, il Parlamento bocciò l’operazione proposta dall’allora premier David Cameron. L’America stava già cambiando idea, restava prontissima soltanto la Francia di François Hollande (con una telefonata notturna, Obama gli disse: ferma tutto, blitz anti Assad abortito), e il voto contrario dei parlamentari britannici congelò lo slancio militare e umanitario, che non si sarebbe mai più ricostituito. Fino a ora: Theresa May appare cauta, forse un pochino recalcitrante, anche se Downing Street dice che Londra è pronta a fare quel che è necessario. Ieri due giornali conservatori titolavano all’opposto: la May non vuole fare nessuna missione anti Assad, titolava il Times, e vuole aspettare che ci siano prove più certe sull’attacco chimico a Duma; la May ha parlato con Trump, titolava il Telegraph, ed è pronta alla missione congiunta con America e Francia. Alla nota cautela della May si aggiungono alcuni altri fattori: il primo è che il governo britannico ha appena ottenuto un appoggio diplomatico enorme nella sua offensiva contro la Russia per l’utilizzo del gas nervino a Salisbury. Se ora gli altri paesi chiedono sostegno in Siria dire di no è difficile. Certo, c’è una bella differenza tra espellere diplomatici russi e armare i Tornado per andare a bombardare la Siria, ma il punto qui è il fronte comune contro un nemico comune, non i mezzi che via via si utilizzano nella battaglia. Il secondo elemento riguarda il voto parlamentare. In termini tecnici, la May può non passare dai Comuni, e molti le consigliano di non farlo: non ha la forza politica per sostenere uno scontro di questa portata. Però non presentarsi di fronte al Parlamento su una questione tanto rilevante come la guerra può rivelarsi altrettanto pericoloso.

Secondo James Landale della Bbc, sempre beninformato sugli affari diplomatici, la May vuole che “le argomentazioni per l’in - tervento militare in Siria siano più esaurienti possibile. Vuole tutte le informazioni sull’attacco chimico a Duma, in modo che sia chiaro chi è il responsabile”. I filorussi ironizzano su questa richiesta della May: per il gas nervino a Salisbury si “è accontentata” di un’ipotesi “altamente probabile” per scatenare la rappresaglia contro la Russia e ora fa la puntigliosa sulla strage in Siria? Ma in questa irrisione frettolosa si dimenticano due elementi ai quali sta pensando la May, e ai quali pensano anche le altre cancellerie europee: bisogna elaborare una strategia che vada oltre l’eventuale raid delle prossime ore. Che cosa succede se Assad, una volta superata questa pioggia di missili che l’America ha promesso via Twitter, dovesse riutilizzare le armi chimiche? Questi interrogativi portano dritti all’obbiettivo principale: l’alleanza internazionale contro Assad vuole eliminare i depositi di armi chimiche (così ha annunciato l’Eliseo) e la missione è al momento compiuta. La rappresaglia è imminente, ma non si vede al momento un cambio di strategia nei confronti di Assad. Però il tempo diventa importante, e non si riduce soltanto a una misura cautelativa, l’ennesima, di Theresa May. Il tempo serve per comprendere che cosa è necessario per arrivare al risultato finale e a questo punto presentarsi inevitabilmente in Parlamento con un piano chiaro e argomentazioni forti. Ma il tempo serve anche a stabilire che genere di operazione militare gli alleati hanno in mente. Con i Tornado si è pronti in fretta, nella base di Akrotiri a Cipro, ma se Londra vuole dispiegare un sottomarino che porti missili Tomahawk, ci vorrà almeno una settimana. Al momento non ci sono sottomarini britannici nel Mediterraneo, e se arriveranno la May vuole avere il dossier pronto per convincere un Parlamento già poco disciplinato, e ostile alla guerra. Vale anche per l’opinione pubblica.

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