Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano, aprile 2018, a pag. 14, con il titolo "Un Paese-laboratorio unico al mondo: come si diventa israeliani restando ebrei" l'analisi di Claudio Vercelli.
Claudio Vercelli
La forza d’Israele, a settant’anni dalla sua costituzione in Stato, sta nell’essere non una nazione inventata, ma un popolo che ha saputo reinventarsi. Non è una formula schematica né, tanto meno, una frase fatta. Dentro la breve, giovanile e vivacissima storia di una comunità politica nazionale che ha già affrontato un grande numero di prove, c’è infatti il nesso tra resistenza e persistenza. La resistenza all’impatto della grande Storia, quella con la maiuscola, che rischia perennemente di travolgere donne e uomini, prima distruggendoli nel corpo e poi annientandone la memoria; la persistenza di ciò che chiamiamo «tradizione», laddove essa si confronta, senza soccombere o esserne soverchiata a sua volta, con la modernità dei tempi. Anche per queste ragioni l’esistenza d’Israele è per certuni uno scandalo, testimoniando della tenace volontà di continuare ad esserci, di non cedere alla tentazione di scomparire, magari facendosi dolcemente assorbire, se non assimilare, dal richiamo dell’indistinzione. Una seduzione insidiosa nell’età contemporanea, quando la soluzione ai problemi evidenziati dalla specificità culturale, religiosa e storica sembra potersi trovare solo nel cancellare la propria identità. Il sionismo nasce proprio dall’esigenza di dare una risposta all’assimilazionismo, altra faccia dell’antisemitismo. Rimarca la necessità di trovare una sintesi tra ciò che è stato fino ad un dato momento e il bisogno di pensarsi oltre quel momento. Il passato non può divorarsi il desiderio del futuro. E il futuro non può esistere se non si alimenta del rapporto con il passato. Per capire i 70 anni d’Israele bisogna quindi ragionare per nodi. Nodi tematici e problematici. Soprattutto, ragionare di come per ognuno d’essi abbia cercato d’identificare delle risposte. Il primo di questi è il concetto di sopravvivenza. Lo Stato d’Israele non nasce grazie alla Shoah. Semmai malgrado essa. La catastrofe dell’ebraismo europeo non ne è la premessa. Quindi, Israele non ne rappresenta neanche la conseguenza. Non è un risarcimento per una tragedia che è tale proprio perché non risarcibile.
L’Yishuv, infatti, è stata una creazione sociale, politica e civile a sé stante, nata e cresciuta nella seconda metà dell’Ottocento come risposta ai processi innescatisi nell’età dell’industrializzazione di massa, di erosione degli imperi multietnici contemporanei, di politicizzazione delle classi subalterne, della diffusione di idealità ma anche di valori legati alla dimensione della partecipazione politica. Come tale, il sionismo è un movimento di emancipazione nazionale che si rivolge agli ebrei ma che parla anche ai non ebrei. Dell’ebraismo, infatti, coglie gli aspetti di continuità soprattutto laddove esso è non solo tradizione morale e spirituale ma anche modo di organizzazione sociale e comunitaria. Ma nella sua storia plurimillenaria costituisce anche una discontinuità poiché proietta il tema dell’organizzazione politica dalla dimensione delle singole comunità a quelle di una nazione. Dal popolo d’Israele al popolo israeliano, in altre parole, con un salto incredibile, tuttavia completamente inserito dentro i percorsi della modernizzazione. La sopravvivenza diventa allora non il rifarsi a una fantasiosa e inamovibile identità, qualcosa di completamente avulso, estraneo dal cambiamento storico, quasi che essa potesse preservarsi dentro una sorta di ghetto mentale da difendere ad oltranza. La sopravvivenza è semmai l’identità in movimento: per la Diaspora è una dimensione culturale, di relazioni nello spazio dell’Esilio; per lo Stato d’Israele è una dimensione evolutiva, legata al fenomeno della trasformazione continua della propria società, nata settant’anni fa da poco più di seicentomila persone e ad oggi composta da oltre nove milioni di individui. Non solo ebrei, poiché se Israele è lo Stato degli ebrei non è tuttavia uno Stato esclusivamente ebraico. Tutta la sua giurisprudenza, infatti, si conforma al diritto positivo, quello che accoglie i diritti civili, politici e sociali, tutelando le specificità e le diversità degli individui. In una regione mediorientale dove, detto per inciso, l’ossessione per l’uniformità, per l’allineamento ad un unico parametro, che sia “religioso”, politico o di altro genere, è invece moneta corrente. Un altro nodo nella sua storia è quindi l’impegno di compiere la riunione degli esili, il Kibbutz Galuyot. Israele è uno Stato plurietnico, che ha raccolto, nel corso di più di cento anni di evoluzione, persone, storie, culture e identità accomunate dal rimando agli ebraismi (da mettere al plurale) ma diversificate da traiettorie di origine e di vita a tratti quasi incolmabili. La forza centripeta, quella per cui individui diversi trovano un comune denominatore, è il vero cuore pulsante del giovane Stato.
Un laboratorio politico, sociale e culturale pressoché unico al mondo e come tale, ancora una volta, osteggiato proprio per ciò che è riuscito a divenire. D’altro canto, si afferma di odiare (per meglio dire, si invidia fingendo di avversare) quanto funziona, non ciò che è fallito nel corso del tempo. In poche migliaia di chilometri di territorio, una società complessa, stratificata, pluralista sa offrire un campionario di situazioni, relazioni e rapporti, così come di volti, di idiomi, di comportamenti che sembrano racchiudere il caleidoscopio del mondo. Proprio perché sta con i piedi per terra, una terra ancora oggi contesa, Israele è quindi una democrazia moderna. Come tale, vive le frizioni, le difficoltà, le tensioni, le speranze come anche le delusioni di una società pluralista ma in costante trasformazione. Si confronta con gli effetti della globalizzazione, dove la crisi dei vecchi ordinamenti geopolitici ma anche l’erosione delle sovranità nazionali, costituiscono elementi dell’agenda politica quotidiana.
ISRAELE, TRA REALTÀ E SOGNO Non esiste uno Stato d’Israele ideale se non nei nostri sogni. Mentre invece esiste l’Israele reale, che ogni giorno si confronta con le sue potenzialità e i limiti che le circostanze impongono. Il più grande nodo, a tale riguardo, rimane quello della sua legittimazione internazionale. Un elemento che si dà nei fatti storici così come negli atti della diplomazia. Israele è uno dei pochi Paesi che possa contare su risoluzioni politiche che, nel corso del tempo, ne hanno sancito il diritto a esistere. Molti altri Stati non possono affermare di sé altrettanto. È così, malgrado quanto possa essere detto da coloro che ne mettono in discussione la sua continuità, denunciandone un presunto abusivismo storico. La politica del ricatto, d’altro canto, è il fuoco del discorso sulla delegittimazione. Si nasconde dietro il problema dei conflitti irrisolti per sancire che la loro negoziazione consisterebbe nell’eliminare la pietra dello scandalo, l’«entità sionista». Finché questo pregiudizio permarrà, è improbabile che si possa arrivare ad una soluzione condivisa delle questioni ancora aperte. Tra queste, per l’appunto, l’accettazione - una volta per sempre - di Israele come Nazione tra le nazioni. Che non è però merce di scambio, bensì premessa per ragionare sui problemi dell’agenda mediorientale, oltre che palestinese. Dal 1948 ad oggi Israele, d’altro canto, ha raccolto al suo interno tutte le culture politiche e sociali della modernità. Anche in questo caso l’effetto di rispecchiamento è stato potentissimo, per gli ebrei come per i non ebrei, a partire dalle stesse società arabe, da decenni in fermento. In pochi chilometri quadrati sono confluite non solo persone, ma idee tra di loro spesso agli antipodi. Le diverse Aliyot hanno portato con sé questo timbro plurale. Prima e dopo l’Indipendenza. Anche in questo caso, la costruzione di una nazione si è misurata con due percorsi paralleli, ovvero l’esperimento di una democrazia partecipativa e la formazione, nonché l’alternanza, delle élite dirigenti. Dell’uno e dell’altro processo ha quindi raccolto anche le tortuosità, le interruzioni, le delusioni che gli sono proprie. Se non è sempre oro quel che luccica, è non meno vero che luccica ciò che riflette la luce del sole. Israele vive oggi un paradosso: produce più storia e più politica di quanta ne possa consumare da sola.
Che cosa vuol dire e, soprattutto, cosa ciò implica? La società israeliana è una miscela di elementi in perenne movimento. Poiché riproduce moltissimi aspetti dell’esperienza della modernità, nella quale nulla è fissato una volta per sempre. Come c’è una mobilità fisica e spaziale ne esiste anche una intellettuale e culturale. Alla sfavorevole collocazione geografica, alle difficili sorti politiche, alla scarsità di risorse prime, ai problemi strutturali, in settant’anni di esistenza lo Stato d’Israele ha sempre dato risposte mutevoli, basate su una grande capacità di adattamento. Si tratta di un aspetto fondamentale della storia ebraica che il Paese ha recuperato, facendolo diventare collante della sua identità collettiva. La letteratura israeliana, e l’eccezionale favore con la quale è stata accolta anche al di fuori dei suoi confini nazionali, testimonia della capacità di fornire ad un ampio pubblico un lessico di significati condivisi. Oggi l’orizzonte di Israele sta nel confrontarsi tra la tentazione che certuni nutrono di rinchiudersi nel particolarismo della propria idea di nazione e la necessità di continuare a dialogare universalmente, senza temere che ciò comporti la perdita di se stessi. Anche in questa biforcazione, tuttavia, si vede l’immagine di ognuno di noi, divisi come siamo tra i timori per un futuro che a volte sembra di nuovo opaco, se non minaccioso, e il bisogno di riconoscersi nel respiro delle speranze, senza le quali non solo nessun progetto può avere corso, ma neanche le identità e le tradizioni possono continuare a esistere. Buon compleanno, Israele.
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