Questa pagina è dedicata a AVVENIRE, il quotidiano dei vescovi, sempre più edizione italiana dello Stürmer, la bandiera che sventola fra le due palestinesi reca una grossa svastica, il signifato è chiarissmo.
Una bandiera con la svastica accanto alle bandiere palestinesi, ha un solo significato: sterminare gli ebrei israeliani, come è scritto chiaramente nello statuto di Hamas. Ma Avvenire lo ignora nei tre articoli che pubblica oggi, 07/04/2018. Un editoriale in prima pagina di Fulvio Scaglione e due articoli di Susan Dabbous, tutti preceduti da un nostro commento.
In fatto di disinformazione, la Repubblica di oggi non è da meno: ecco il titolo in prima pagina: " Gaza, altro venerdì di sangue. Palestinesi sfidano il confine, Israele spara e ne uccide sette"
Ecco i tre articoli di Avvenire:
Fulvio Scaglione: " Nessuno sogna a Gaza"
Fulvio Scaglione
Gaza diventa una "nazione oppressa e abbandonata", Israele è uno "stato forte e protetto", ci manca solo 'peccato'. L'alleanza con Fatah presentata come una realtà che non si avvera per colpa di Netanyahu, menzogna enorme che può sembrare credibile soltanto a dei lettori che subiscono ogni giorno il lavaggio del cervello a opera di Avvenire.Secondo la logica di Scaglione, Israele dovrebbe reagire al tentativo di invasione aprendo il confine con un amichevole 'benvenuti'? Ignorare la tattica di Hamas che espone a morte certa i propri cittadini pur di permettere a un Occidente vigliacco di accusare Israele, è un'altra miserabile tecnica adoperata da chi vuole delegittimare lo stato ebraico e Scaglione ne fa gran uso, nelle sue pseudo ricostruzioni 'storiche'. Loda poi la Ong israeliana B'Tselem, questa organizzazione che verrebbe giudicata illegale in qualsiasi democrazia, ma non ancora in Israele.
Gli scontri sul confine tra la Striscia di Gaza e Israele, destinati a ripetersi fino al 15 maggio, giorno della nascita dello Stato di Israele nel 1948 e della nakba (catastrofe) per i palestinesi, e le decine di morti inutili che ne usciranno, sono la rappresentazione in forma di tragedia di quanto succede ogni giorno in quella terra. Ovvero, un dramma che non è senza senso, ma è senza direzione. Non più uno scontro tra popoli, e certo non solo quello tra uno Stato potente e protetto e una nazione oppressa e abbandonata, ma la rissa impari tra due entità che, pur di combattersi, hanno snaturato se stesse e hanno imboccato una strada che non ha sbocchi. Basterebbe a dimostrarlo il grottesco paradosso che è sotto gli occhi di tutti. Hamas, lanciando la propria gente contro i fucili dell'esercito di Israele, ha tolto Benjamin Netanyahu dai guai politici e giudiziari in cui si dibatteva con sempre maggiore affanno, restituendogli la preziosa patente di protettore del "focolare ebraico". E Netanyahu, rilasciando ai suoi cecchini la licenza di sparare ad altezza d'uomo, ha riportato prepotentemente Hamas nel gioco, proprio quando Hamas avrebbe dovuto cedere i poteri all'Autorità palestinese presieduta da Abu Mazen. Ma come si diceva, il fatto importante, ora conclamato, è che sia Israele sia la Palestina finiscano lungo questa via per tradire se stessi. Lo Stato ebraico, da quando nel 1977 prese il potere la destra e Menachem Begin cominciò a parlare di «territori liberati» per confutare la dizione «territori occupati», ha ripercorso a ritroso la propria storia. Finché con Netanyahu siamo tornati alla teoria del Muro di Ferro elaborata da Ze'ev Zhabotinski in un saggio del 1923. L'idea, cioè, che con gli arabi si può trattare solo con la forza, rendendo così dolorosa e costosa qualunque forma di opposizione allo Stato ebraico da soffocarla sul nascere. Quel Zhabotinski che ebbe come segretario personale Benzion Netanyahu, padre dell'attuale premier e per lunghi anni leader del movimento sionista revisionista. Uno storico ma soprattutto un falco, convinto che l'operazione Piombo Fuso, l'offensiva contro i razzi di Hamas tra dicembre 2008 e gennaio 2009, fosse stata condotta senza la necessaria energia. Anche se secondo B'Tselem, l'organizzazione pacifista israeliana, morirono 1.387 palestinesi dei quali 773 civili disarmati. Poiché l'idea della forza si è accompagnata, in questi decenni, alla pratica degli insediamenti e dell'occupazione della terra, su questa china Israele presto si troverà padrona di tutta la Palestina e dovrà decidere che cosa fare dei palestinesi. Che magari non erano un popolo nel 1948, ma di certo lo sono ora, e per "merito" degli israeliani che, colpendoli senza sosta, hanno formato in loro tale coscienza. Che cosa deciderà per loro Israele? Li terrà dentro un unico Stato, dopo aver affondato l'ipotesi dei due Stati, perdendo la maggioranza o conservandone una risicata? Oppure li chiuderà in tante riserve invivibili com'è oggi Gaza? Il tutto mentre Israele, pur essendo la vera potenza militare, economica e politica del Medio Oriente, non esercita le responsabilità del vincitore e continua a proporsi come un piccolo e indifeso Paese circondato dai cattivi. Nello stesso tempo, e allo stesso modo, i palestinesi si sono consegnati a un'impotenza politica che colpisce per quant'è profonda. Abu Mazen ha l'Autorità ma non l'autorevolezza. Per conservare il potere ha rinunciato a ogni parvenza di democrazia: in Palestina non si vota da dodici anni, e cariche e incarichi sono distribuiti per cooptazione, perché se si votasse, vincerebbe Hamas, proprio come nel 2006. E d'altra parte, che cosa può vantare Abu Mazen nella sua "moderazione" e nel rapporto privilegiato con Israele, se Israele non fa che erodere lo spazio palestinese? Vmce l'originale, quindi vince Hamas. La cui strategia, però, alla fin fine resta quella di scagliare i suoi giovani a testa bassa contro il Muro di Ferro, con gli effetti che vediamo e che (dalla Giordania di Settembre Nero al Libano alla Siria e oltre) hanno tramutato i palestinesi in un problema anche per gli antichi amici arabi. De esultato: i palestinesi sono stati ab1 1 bandonati da tutti (si vedano le recenti dichiarazioni di Mohammed bin Salman, l'uomo forte dell'Arabia Saudita, tutto miele con Israele); il Muro diventa sempre più alto e più spesso; e mai i palestinesi sono stati così alla mercé degli israeliani come oggi, quando ormai 130 tra Stati e Parlamenti riconoscono la Palestina come uno Stato. Tanto che la partizione proposta dall'Onu nel 1947, un tempo spregiata e che adesso chiameremmo forse la "soluzione a due Stati", pare quasi un sogno. Sappiamo di auspicare l'impossibile ma è necessaria una rivoluzione politica su entrambi i fronti, che parta da una banalissima constatazione: nessuno sparirà dalla Palestina. Né lo Stato ebraico né il popolo palestinese. Rassegnarsi a questo o massacrarsi per sempre. E tutto qui.
Susan Dabbous: " Fumo, assalti e spari a Gaza. Ancora sangue sulla marcia "
Susan Dabbous
Odiatrice di Israele, da superare di gran lunga il povero Michele Giorgio, Dabbous si sfoga riproponendo la bufala della 'espulsione' degli arabi quando venne proclamato lo Stato di Israele nel 1948. Le menzogne, a furia di ripeterle, diventano verità, sosteneva Goebbels. E' quello che avviene su Avvenire. Si lamenta persino che non possano essere perseguite le normali attività civili a causa di quanto avviene al confine con Israele! Critica anche la soluzione di Tszhal che ha piazzato un enorme ventilatore che rispedisce al mittente il fumo procurato dai pneumatici dati alle fiamme. Quando la verità è che i tiratori scelti israeliani hanno potuto identificare chi sparava da chi lanciava pietre. Anche Dabbous loda un'altra Ong israeliana che difende l'accesso in Israele dei terroristi. Vale quanto scritto a proposito di B'Tselem, Il governo d'Israele deve portare in tribunale chi sta dalla parte del nemico, perchè una democrazia ha il dovere di difendersi.
Una coltre impenetrabile di fumo nera E questa l'ultima cosa che hanno visto i nove palestinesi uccisi ieri a Gaza, durante il secondo round della "Lunga marcia del ritorno" Venerdì scorso vicino alla frontiera con Israele si sono radunati 30mila manifestanti e le vittime sono state 21. È così che ha avuto inizio la marcia lanciata da Hamas che intendeva commemorare l'anniversario del giorno della tèrra. Il 30 marzo del 1976, infatti, sei arabi vennero uccisi dagli israeliani in Galilea mentre venivano espropriate le loro terre. Il partito islamista ha indetto la settimana scorsa una marcia che durerà fino al 15 maggio, il giorno della catastrofe, Nakba in arabo, in cui 750.000 mila palestinesi furono cacciati dalle le loro terre con la creazione dello Stato d'Israele. Nonostante la protezione data dal fumo, alla marcia di ieri si sono radunate meno di 30.000 persone, altissimo è stato però il numero dei feriti, circa mille, molti colpiti da proiettili veri, come riportato dalla Mezza luna rossa. Giovedì scorso il generale israeliano Nitzan Nuriel, aveva fatto sapere che le regole di ingaggio per i militari non erano cambiate, tra queste l'utilizzo di munizioni letali. Vedendo l'accumulo di pneumatici da bruciare (quella di ieri era stata rinominata la giornata della gomma), i soldati israeliani hanno posizionato inoltre anche un enorme ventilatore, sollevato da un braccio meccanico alto circa due metri. Sono riusciti così a contrastare il fumo e a rigettarlo contro i manifestanti. «Hamas sta bruciando gomme mettendo così in pericolo la sua popolazione - ha scritto l'Idf (Israeli defence forces) su twitter durante gli scontri - di fatto sta cercando di trasformare il confine tra Gaza e Israele in una zona di guerra, tentando di incendiame la frontiera». Successivamente, l'esercito ha dichiarato l'area vicino al confine «zona militare chiusa». Impedendo di fatto le normali attività civili e un via vai di curiosi israeliani che aveva iniziato a farsi selfie con il fumo alle spalle. Ma il vero scopo della densa cortina di fumo, secondo l'Idf sarebbe stato quello di coprire i dimostranti mentre tentavano di danneggiare i recinti di confine per attraversarli, lanciando poi ordigni esplosivi e molotov. La presenza di armi tra i manifestanti non è stata comunque comprovata, per questo è stata chiesta uri inchiesta trasparente dall'Onu. Secondo l'esercito israeliano la maggior parte delle vittime sono terroristi, seppure non nega la vocazione anche pacifica della manifestazione. L'ideatore della "Lunga marcia del ritorno" è infatti di un attivista per i diritti umani: Ahmed Abu Ratima, che nel bel mezzo delle primavera arabe, nel 2011, scrisse: «Cosa accadrebbe se 200.000 palestinesi marciassero pacificamente, verso la frontiera, tenendoinmanouncartello con scritto "vogliamo solo tornare a casa"?». Nel 2011 non se ne fece nulla, poi nel 2014 l'ennesima escalation militare tra Hamas e l'esercito israeliano portò quest'ultimo a lanciare l'operazione Margine di difesa. Da allora nonostante innumerevoli sforzi internazionali e conferenze, la ricostruzione di Gaza è proseguita a rilento, raggiungendoastento i160 per cento degli obiettivi. Nulla è stato fatto per rimuovere l'embargo imposto da Israele che impedisce agli abitanti di Gaza di uscire dalla Striscia, di pescare oltre te miglia dalla costa o importare materiali di diverso genere tra cui quelli edili. Tinto ormai passa valico di Erez (punto di passaggio per le persone), e quello di Karem Shalom (per le merci) strettamente controllati da Israele. Da quando anche il valico di Rafah, che collega Gaza con l'Egitto, è stato chiuso per volontà del presidente Abdel Fatah al-Sisi, aperto nemico dei Fratelli musulmani di cui Hamas fa parte, la popolazione ha visto peggiorare ulteriormente le sue condizioni di vita. L'Egitto ormai rilascia i permessi solo per concedere ai palestinesi di uscire per compiere il pellegrinaggio alla Mecca. Così le richieste degli abitanti di Gaza di uscire dal valico di Erez, per motivi di studio, famiglia o salute, sono più che triplicate, come testimonia l'Ong israeliana Gisha, che in ebraico significa letteralmente «accesso». Gisha è conosciuto anche come il Centro legale per la libertà di movimento. «Ed èproprio questo il punto - afferma il giornalista Muthana alNajjar (tra gli organizzatori pacifici della Marcia, originario di Jaffa) - che la gente a Gaza è disposta a tutto pur di riacquisire la libertà di spostarsi». Lasciando intendere che ormai la popolazione sarebbe prontaad accettare un accordo al ribasso, persino la"soluzione di un unico Stato" (vivendo di fatto dentro i confini dello Stato ebraico) pur di riacquisire qualche diritto: tra cui quello di poter tomare nelle proprie città d'origine. Ma questa non è certo la posizione ufficiale di Hamas. «Se Israele colpirà la Striscia nel profondo - ha detto un leader del movimento, Mahmoud a-Zahar - ci vendicheremo colpendo in profondità il cuore degli insediamenti». «La vera sfida - chiosa Najjar - sarà proseguire le marce, ogni venerdì, pacificamente, con donne e bambini. Magari senza intossicarci».
Susan Dabbous: " Fuggono dalle persecuzioni, ingiusto voltargli le spalle "
Poteva Dabbous dimenticare i clandestini africani entrati dal Sinai egiziano in Israele in attesa di espulsione? Certo che no, e come lo fa? intervistando la suora Azezet Habtezghi Kidane " missionaria comboniana originaria dell'Eritrea, da otto anni in Israele a servizio dei rifugiati "così la presenta la nostra. E' a lei che il governo israeliano dovrebbe rivolgersi, sempre in omaggio alla soluzione 'ponti e non muri' che tanto piace anche a Francesco. Proponga allora al Vaticano di accogliere i clandestini nel suo stato, darebbe un bell'esempio. No, è Israele che deve aprire i propri confini a chi entra clandestinamente.
Mentre a Gaza proseguono gli scontri, non si placano le proteste in Israele anche sul fronte dei migranti. Gli africani (per lo più eritrei e sudanesi) entrati illegalmente dal Sinai dal 2007 al 2012, potrebbero essere deportati in Uganda, Paese con cui il governo israeliano sta ridefinendo un nuovo accordo, simile a quello già stipulato in passato e considerato illegittimo dall'Onu. L'Acnur (Alto commissariato Onu per i rifugiati), ha infatti proposto al governo israeliano di regolarizzare metà dei 38mila mila africani per lo più concentrati a Tel Aviv, mentre l'altra metà sarebbe stata redistribuita dall'agenzia tra Europa e Canada. Ma l'esecutivo di Netanyahu ha stracciato questo accordo, preferendo tentare la strada delle espulsioni, già bocciata dalla Corte suprema israeliana, voluta però dall'ala nazionalista della sua coalizione. Tra i migranti «ci sono anche donne e bambini ma li chiamano infiltrati lo stesso», spiega suor Azezet Habtezghi Kidane, missionaria comboniana originaria dell'Eritrea, da otto anni in Israele, a servizio dei rifugiati. La incontriamo nel monastero di San Salvatore dentro la città vecchia di Gerusalemme mentre segue un seminario di studi biblici. Sorriso spontaneo, occhi attenti e modi gentili, per tutti lei è semplicemente suor Aziza, stimata per la sua assistenza alle vittime della tratta sopravvissute al deserto del Sinai, un impegno che nel 2012 le è valso anche il premio del dipartimento di Stato americano, il Trafficking in People Report Hero Acting to End Modern Slavery. Le chiediamo chi sono le rifugiate che aiuta. «Sono donne eritree, sudanesi - racconta - sono arrivate malate, torturate, abusate sessualmente, incinte, alcune hanno persino partorito nel Sinai. Una volta arrivate in Israele, dopo tre giorni in un centro d'accoglienza, sono state abbandonate in un parco nel Sud di Tel Aviv. Così l'African refugee development center ha pensato di affittare delle case per loro. La prima volta che sono andata a trovarle, ho visto che in ogni stanza vivevano tre o quattro donne. Ho notato che erano depresse, passavano il tempo accovacciate, a dormire. I loro figli non camminavano perché stavano sempre sdraiati con le mamme». Alla comboniana, dunque, è venuto in mente di renderle attive. Le donne vengono fatte parlare dei loro traumi intorno a un tavolo comune, nel mentre si lavora a uncinetto. Suor Aziza aderisce al progetto "kuchinette" che in tigrino significa uncinetto. «All'inizio facevano solo kippah e portachiavi, ma io ho capito che coi cestini porta panni avrebbero venduto di più». Un'intuizione di successo. Ora "kuchinette" dà lavoro a 175 donne rifugiate, il cui destino è ancora una volta messo in discussione dalle decisioni altalenanti del governo Netanyahu, intenzionato ad espellere i migranti ma frenato da una società civile ebrea, che trova ingiusto voltare le spalle a chi fugge dalle persecuzioni. «Per me è un mistero - commenta Suor Aziza la decisione del governo israeliano - dopo quello che gli ebrei hanno vissuto come rifugiati, in giro per il mondo, non capisco perché lo Stato israeliano non possa prendere un numero così piccolo di migranti». Per gli abitanti del sud di Tel Aviv, che non auspicano la deportazione verso l'Uganda, la soluzione sarebbe una redistribuzione dei migranti in tutto il Paese. «Queste donne vogliono solo un po' di serenità - ricorda la comboniana - dopo i traumi psicologici dei loro viaggi terribili, qui, in Terra Santa, si aspettano di vivere in pace, e invece sono pervase da un angosciante senso di precarietà»
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