La bandiera con la svastica sventola accanto a quelle palestinesi,
richiede una particolare intelligenza capirne il sigificato?
Riprendiamo oggi, 07/04/2018, dalla STAMPA a pag.13, il pezzo di Giordano Stabile, dal FOGLIO, a pag.IV quello di Rolla Scolari
La Stampa- Giordano Stabile: " A Gaza tra il fiume nero dei copertoni e i cecchini israeliani alla frontiera "
Giordano Stabile
Il fumo nero, denso, si leva dietro i filari di aranci, si sente l’odore acre. Dietro la curva si vede il terrapieno del confine, a ridosso della recinzione, con le camionette dell’esercito che vanno su e giù. Due, tremila persone si accalcano nello spazio stretto fra le case del villaggio di Juhor al-Dik e la frontiera. Una zona di morte perché i soldati israeliani hanno l’ordine di sparare se i dimostranti cercano di forzare il confine. Dal lato israeliano le case dell’insediamento di Nahal Oz sono ad appena seicento metri. Dopo le tre il fumo diventa più denso, i palestinesi continuano a incendiare copertoni di auto, camion per creare una coltre spessa e impedire la visione ai cecchini, ai bordi dell’abitato, invisibili. La mattina era trascorsa senza incidenti di rilievo ma ora i cannoni ad acqua non bastano più a spegnere le fiamme né a contenere i manifestanti, che premono, in mezzo alle nuvole nere. Si sentono i colpi secchi dei fucili. Poi le sirene delle autoambulanze, che fendono la folla fin quasi alla recinzione. Il venerdì è di nuovo di sangue. In sei manifestazioni al confine, almeno 20 mila persone, si contano a sera sette morti, compreso un ragazzo di 16 anni, e oltre 1000 feriti. È un altro Venerdì Santo, è la settimana della Pasqua ortodossa, che segna anche la fine della Pesah ebraica. Cominciata e finita malissimo. Le forze armate israeliane, la polizia, con i corpi speciali dalle divise nere, si sono preparati per sette giorni, hanno adattato le tattiche di contenimento, l’intelligence si è infiltrata per capire dove ci sarebbe stata la pressione più alta, e Naha Oz era uno di questi. Nelle retrovie c’è un impressionante apparato di camionette, blindati, camion dei pompieri, bulldozer. I soldati in rinforzo indossano i giubbotti antiproiettile e attraversano i frutteti. «Ogni vittima è una vittoria per Hamas», ammette il colonnello Jonathan Conricus responsabile delle sicurezza in questo settore: «Cerchiamo di sparare soltanto se non c’è altra possibilità per fermare le infiltrazioni. A seicento metri abitano cittadini israeliani, non possiamo permetterci alcun rischio». L’Onu ha ribattuto che le armi da fuoco possono essere usate soltanto «nell’imminente rischio di essere feriti o uccisi». Ma Hamas, insiste il colonnello Cornicus, «gioca con le vite delle persone, paga le famiglie dei feriti, ha imposto a tutti i suoi militanti di venire con mogli e figli: è un tragico show a scopo propagandistico». I militari israeliani sottolineano che la mobilitazione è in calo, da 35 mila a 20 mila dimostranti, e il consenso per Hamas sta cedendo. Ma le voci che arrivano dalla Striscia sono di stanchezza sì, ma anche di disperazione che non promette niente di buono: «Ci hanno rubato tutto, la terra, la libertà, il futuro: tanto vale che ci ammazzino tutti». I militanti di Hamas partecipano, certo, alle manifestazioni ieri è arrivato anche il leader Yahya Sinwar, ma «assieme alla loro gente». La protesta andrà avanti e la giornata decisiva sarà il 15 maggio, quando la protesta diventerà «gigantesca». Per i soldati israeliani è la più strana delle Intifade. «Quelli giocano con la vita, non gliene importa nulla: sono loro i responsabili delle morti», insistono. Non c’è battaglia, è un tiro al bersaglio. I due mondi non sono mai stati così lontani. Gaza, uno dei Paesi più poveri del mondo, ormai senza acqua potabile, perché gli egiziani hanno inondato i tunnel con acqua di mare, e le falde adesso sono salate. Dall’altra parte ci sono i soldati di leva di uno Stato che ha appena superato come Pil pro capite la Francia e la Gran Bretagna. La guerra, con i rischi da questo lato ridotti quasi a zero, sembra soprattutto un scocciatura, ma lascia i suoi segni. «Quando ho fatto il militare – racconta Sagui Gavri, uno dei pilastri della Ong Hearts for peace – ero un cecchino. C’era la prima Indifada. Puntavi il fucile e potevi vedere il volto dell’uomo che avevi nel mirino. Ero addestrato a farlo, in automatico. Non ci pensi, in quel momento, ci devi fare i conti dopo». Gavri, già durante il servizio, si è fatto spostare al reparto medico. E lì ha scoperto la sua vocazione, fino a diventare cardiologo pediatra. «In dieci anni abbiamo curato 700 bambini palestinesi – racconta -. È il minimo che posso fare per Gaza: di là c’è una disperazione totale». Il nonno di Gavri è stato il fondatore dell’insediamento di Nir Am, negli Anni Trenta, attaccato alla Striscia. «Parlava arabo – ricorda -, trattava con i capi beduini e si era guadagnato il loro rispetto, tanto che gli avevano dato il titolo di moukhtar. Il massimo conflitto era allora per il furto di qualche mucca. Un altro mondo, che non tornerà più».
Il Foglio-Rolla Scolari: "Perchè i palestinesi protestano soltato a Gaza? La Striscia vista da vicino"
Rolla Scolari
Milano. Un fumo nero e denso si è alzato ieri dalla Striscia di Gaza, lungo la barriera che divide il piccolo territorio palestinese da Israele. Da giorni i social media arabi parlano di “protesta dei copertoni”. E da giorni si ammassano gomme negli stessi luoghi lungo il confine da dove venerdì scorso sono partite manifestazioni e tentativi di oltrepassare la barriera, e migliaia di persone si sono riunite. Una parte è entrata nella cosiddetta “area di accesso ristretto” – 300 metri di terreni agricoli abbandonati ritenuti dall’esercito israeliano off-limits. Diciotto persone, undici delle quali secondo i portavoce militari israeliani erano miliziani dei gruppi armati della Striscia, sono rimaste uccise venerdì scorso da proiettili di gomma e munizioni, mentre ieri il ministero della Sanità di Gaza ha parlato di altre tre vittime. Da venerdì, con i feriti deceduti in ospedale, sono morti 25 palestinesi. E’ per impedire la visuale ai tiratori scelti di Tsahal che ieri a Gaza hanno bruciato decine di copertoni, creando un fumo spesso, cui gli israeliani hanno riposto con cannoni ad acqua e dissipatori di fumo. A poche centinaia di metri da quella barriera, da una parte, quella israeliana, ci sono le prime basse villette delle comunità rurali che circondano la Striscia, dall’altra, quella palestinese, ci sono tende, tavoli e sedie da fiera di paese dove oltre 30 mila persone venerdì scorso e 10 mila ieri si sono raccolte in protesta. All’origine di quella che è stata definita la “Marcia del Ritorno” nelle terre da cui i palestinesi sono stati allontanati nel 1948, alla nascita dello stato d’Israele, ci sono attivisti civili. Israele accusa però Hamas, il gruppo islamista che controlla Gaza dal 2007 assieme alle sue milizie armate, di aver monopolizzato l’iniziativa. Tra le tende a oltre un chilometro dalla barriera, si mangia: ci sono i baracchini del gelato, quelli dei succhi di frutta. Di venerdì – il giorno di festa – nella minuscola e sovrappopolata Striscia di Gaza, impoverita da anni di conflitti, crisi economica e blocco da parte di Israele, Egitto e della stessa Autorità palestinese, la protesta suscita anche curiosità. Altrove, in Cisgiordania, ci sono state ieri manifestazioni di sostegno, come accaduto anche una settimana fa, ma molto limitate nei numeri e nell’intensità. A preoccupare Israele non sono i Territori palestinesi controllati dall’Autorità nazionale del vecchio Abu Mazen: la collaborazione tra le forze di sicurezza palestinesi della Cisgiordania e quelle israeliane ha permesso d’evi - tare violenze anche nei momenti di profonda crisi, come il recente annuncio del presidente Donald Trump di un riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale d’Israele. Al contrario, a Gaza i vertici di Hamas sostengono e partecipano alla protesta, tanto da aver annunciato compensazioni finanziarie ai feriti negli scontri – da 200 a 500 dollari – e alle famiglie delle vittime, 3.000 dollari. La situazione economica della Striscia contribuisce ad alimentare la frustrazione di una popolazione che ha poco da perdere. Il territorio rettangolare di Gaza, adagiato sulla costa mediterranea al confine con l’Egitto, è lungo soltanto 42 chilometri, la distanza che c’è tra Milano e Novara. E’ largo 12 chilometri, la distanza che c’è in linea d’aria tra il centro di Roma e il Grande raccordo anulare. In 365 chilometri quadrati vivono 1,7 milioni di abitanti: due volte quelli di Torino città. Il 44 per cento della popolazione è sotto i 14 anni e moltissimi giovani non hanno mai messo piede fuori da Gaza, dove dopo l’ultima guerra del 2014 la ricostruzione è rallentata dal blocco di beni e persone imposto da Israele, certo, ma anche dalla chiusura del confine egiziano, dall’incapacità di Hamas di gestire la crisi, con i vertici che investono in forze militari mentre la popolazione ha quattro ore al giorno di elettricità e poca acqua potabile. A peggiorare un’emergenza economica che è in origine tutta politica, ci sono le rivalità interne palestinesi. L’Autorità di Abu Mazen, che non controlla più la Striscia dal 2007, continua però ad assicurare anche lì stipendi agli impiegati statali. Per indebolire i rivali di Hamas, cui chiede di dissolvere le milizie, l’Anp ha decurtato nel 2017 i salari di oltre 60 mila lavoratori pubblici.
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