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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
31.03.2018 Gaza: cronache e interviste per capire il tentativo di invasione d'Israele
Cronaca di Francesca Paci,Matrolilli intervista Daniel Pipes, Cremonesi Benny Morris

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Francesca Paci-Paolo Mastrolilli-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «La marcia del ritorno finisce in battaglia. 15 morti a Gaza- I palestinesi cercano una nuova intifada per ottenere concessioni dagli Usa- Il diritto al ritorno è una antica questione, Hamas ora la sfrutta»

Hamas tenta di invadere Israele al confine di Gaza. Riprendiamo oggi 31/03/2018  la cronaca di Francesca Paci sulla STAMPA  a pag.2  e Paolo Mstrolilli intervista Daniel Pipes. Sul CORRIERE della SERA a pag.2 Lorenzo Cremonesi intervista Benny Morris.

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La Stampa-Francesca Paci:"La marcia del ritorno finisce in battaglia. 15 morti a Gaza"

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Francesca Paci

È guerra al confine tra Israele e Gaza. La prima tappa della lunga marcia del ritorno, indetta dai palestinesi per rivendicare il diritto dei discendenti dei rifugiati a rientrare nelle case di famiglia perdute dal 1948 ad oggi, si chiude con un bilancio di sangue, il peggiore da molti mesi. Le stime del ministero della Sanità della Striscia controllata da Hamas parlano di 15 dimostranti uccisi e oltre 1200 feriti negli scontri violentissimi con l’esercito nemico. E mentre da Ramallah (dove pure, come a Hebron, la tensione è salita alle stelle) il presidente Abu Mazen accantona i problemi con i rivali islamisti e proclama il lutto nazionale per i martiri, Israele conferma che i soldati (tra cui un centinaio di cecchini) hanno aperto il fuoco contro «i principali istigatori», fa sapere di aver colpito 3 postazioni di Hamas e di aver sventato l’attacco di una cellula terroristica che voleva infiltrarsi da Gaza.
Donne e bambini
Da giorni migliaia di persone, moltissime donne e bambini, continuavano ad affluire a ridosso della barriera che separa il Nord della Striscia da Israele per occupare simbolicamente la zona presidiata sul fronte opposto da un robusto cordone di sicurezza. Così, alle prime ore di ieri, venerdì della rabbia e inizio della Pasqua ebraica, è cominciata la prima delle manifestazioni che dovrebbero mobilitare i giovani di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est fino al 15 maggio, 70° anniversario di quella che per loro è la Nakba, la catastrofe, «la nascita dello Stato d’Israele sulla terra araba». Il 30 marzo in particolare i palestinesi celebrano il giorno in cui, 42 anni fa, lo sciopero convocato nelle principali città arabe israeliane contro un esproprio nel Nord del Paese si concluse con 6 arabi israeliani uccisi, 100 feriti, decine di arresti. Il 30 marzo 2018 Gaza voleva marcare dunque il debutto di una riunificazione sia pur immaginaria dei palestinesi in crisi di leadership ma a metà mattinata era già un campo di battaglia annebbiato dai lacrimogeni: le prime vittime (un contadino e un 17enne), 17 mila dimostranti, colpi di artiglieria e proiettili di gomma da parte israeliana, molotov e sassi da parte palestinese. La guerra delle parole
«Hamas ha inviato una ragazzina di 7 anni verso Israele per superare la barriera difensiva» denuncia l’esercito israeliano accusando i signori di Gaza di usare i civili come scudi umani. «Era una manifestazione pacifica» ripete il leader di Hamas Haniyeh ammonendo che le vittime di Beit Hanun e Jabalya segnano l’inizio del ritorno dei palestinesi in tutta «la Palestina» e ricordando al Trump dello strappo su Gerusalemme che «non c’è soluzione senza il diritto al ritorno». E quando in serata gli scontri dilagano anche in Cisgiordania il ministro della Difesa israeliana Avigdor Lieberman, a detta dei media fisso da ieri nel quartier generale dell’esercito, assicura di essere pronto a usare le maniere forti e avvertite che qualsiasi palestinese in avvicinamento alla barriera di sicurezza mette a repentaglio la sua vita. Riunione all’Onu Le prossime settimane, quelle che nello stallo (almeno apparente) del processo di pace dovrebbero portare anche all’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme, si annunciano dure. Nella notte si è riunito il Consiglio di sicurezza dell’Onu. La grande marcia di ieri, organizzata simultaneamente in sei diversi punti lungo il 50 km di confine con Israele, è una fuga in avanti rispetto alle piccole proteste e agli attacchi sporadici degli ultimi mesi. Viene letto come il tentativo di Hamas di recuperare consensi e uscire dal corner di Gaza, dove, insieme a 2 milioni di palestinesi, è inchiodato dal blocco imposto da Israele e di fatto rafforzato dall’Egitto e dalla rottura sanguinaria con Fatah, nel 2007.

La Stampa-Paolo Mastrolli: "I palestinesi cercano una nuova intifada per ottenere concessioni dagli Usa", intervista a Daniel Pipes

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Paolo Mastrolilli                Daniel Pipes

«A Gaza sta avvenendo una nuova intifada, voluta dalla leadership palestinese perché il piano di pace di Trump la sta mettendo in difficoltà, e la isola nel mondo arabo». È l’opinione del presidente del Middle East Forum Daniel Pipes, un neocon non sempre allineato con l’amministrazione in carica. Non crede alla versione della protesta pacifica promossa da attivisti, e poi sostenuta da Hamas? «È irrilevante. Hamas vuole provocare la violenza di Israele contro i palestinesi, per danneggiare l’immagine dello Stato ebraico». Anche Abbas è favorevole? «L’Autorità palestinese e Hamas sono rivali, usano tattiche e tempi diversi. Le loro intenzioni però sono simili, e in questo momento ritengono che la violenza sia un passo necessario». Perché ora? «In parte per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, in parte per il settantesimo anniversario della sua nascita, e in parte per i problemi creati dal nuovo piano di pace americano, che impongono di ricostruire l’unità interna attraverso la lotta contro un nemico esterno». L’amministrazione Trump sarebbe pronta pubblicare la sua proposta: ci vede un collegamento? «Probabilmente sì». Perché? «Sono uscite molte indiscrezioni, anche contraddittorie, ma le prime erano piuttosto favorevoli ai palestinesi, come ricompensa per lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. Comprendevano il riconoscimento del loro stato, la capitale a Gerusalemme Est, l’internazionalizzazione della Città vecchia, la fine degli insediamenti israeliani nel West Bank, la restituzione di una parte dei territori, la concessione di finanziamenti per 40 miliardi di dollari. L’unica vera rinuncia era quella del diritto al ritorno, che comunque tutti sanno essere impossibile». Quindi la violenza serve a deragliare questo piano? «No, a miglioralo. Le indiscrezioni successive sono apparse meno favorevoli ai palestinesi, che provocando la violenza puntano a fare pressione sugli Usa affinché concedano di più, o almeno tornino alla versione iniziale del piano». La leadership teme di essere costretta ad accettare una proposta meno conveniente? «Di certo sono nervosi, tanto l’Autorità quanto Hamas, perché vedono movimenti senza precedenti. Il principe saudita Mohammed Bin Salman che viene negli Usa ad incontrare leader filo israeliani, le pressioni degli Emirati, le aperture di Egitto e Giordania. I palestinesi non si erano mai sentiti così isolati, e sperano di rompere l’accerchiamento provocando la violenza israeliana». Pensa che ora Trump rinuncerà a presentare il suo piano? «Un presidente tipico lo rimanderebbe, aspettando la fine delle violenze, ma con lui non si può mai sapere». Lei quindi non giudica già finito il suo tentativo di trovare una soluzione? «Questo è certamente un momento difficile, ma se i palestinesi giudicheranno conveniente il piano, potrebbero cambiare linea».

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Il diritto al ritorno è una antica questione, Hamas ora la sfrutta", intervista a Benny Morris

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Lorenzo Cremonesi                Benny Morris

«È dal 1949, un anno dopo la nascita dello Stato di Israele, che i leader palestinesi pensano in diversi modi di organizzare una grande marcia di profughi volta a delegittimare sia i nostri confini che la nostra presenza in Medio Oriente. Ci hanno pensato più volte in quasi settant'anni, senza mai riuscirvi per vari motivi. E adesso ci prova Hamas da Gaza appropriandosi della cosiddetta " Iom al Hard", la Giornata della Terra, che dal 1976 è tradizionalmente coordinata dagli arabi israeliani per protestare contro le requisizioni delle loro terre in Galilea». Benny Morris, lo storico israeliano che da anni riflette sulla genesi e le conseguenze delle guerre tra lo Stato ebraico e il mondo arabo, condivide la lettura più popolare nel suo Paese sull'attuale «impotenza» della classe dirigente palestinese. «La causa palestinese è davvero in difficoltà — sostiene —. Olp e Hamas sono ai ferri corti: nonostante sventolino la bandiera dell'unità nazionale, restano divise, se non in guerra aperta. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, è troppo anziano e troppo attaccato al potere personale per farsi da parte o proporre qualcosa di realmente nuovo. Così rilanciano la vecchia idea della marcia. Ma non si rendono conto che il mondo è troppo occupato con altri problemi. La stessa Europa, che pure in passato è stata attenta alla loro causa, oggi ha altre gatte da pelare», dice da Washington, dove ha appena terminato una dettagliata storia del massacro degli armeni. Quanto ai fallimenti dei vecchi progetti di marce di profughi verso i confini israeliani, i motivi sono ben noti. «Ben presto dopo i11948 i capi arabi iniziarono a parlare anche alle Nazioni Unite del diritto al ritorno dei profughi palestinesi alle loro case. Ma Israele disse subito a chiare lettere che non vi avrebbe mai acconsentito. Già allora erano in questione gli equilibri demografici interni allo Stato ebraico». Furono poi gli stessi governi arabi che fecero di tutto per evitare problemi. Dall'Egitto, la Siria, alla Giordania e al piccolo Libano, si era pronti a sostenere a parole la causa palestinese, però si cercò sempre di impedire che questa potesse causare frizioni interne e sui confini con Israele. La situazione è diversa con Hamas a Gaza. «Stupisce che vi abbiano pensato soltanto adesso, sebbene sia da12oo6 che Hamas detiene il potere nella regione». A suo dire si tratta però di una dimostrazione di debolezza, non di forza. «Hamas non ha altre carte nel suo mazzo. La crisi economica interna è gravissima. Mentre Israele prospera, le zone palestinesi soffocano nella mancanza di aiuti, di energia elettrica, dell'isolamento politico imposto anche dal governo del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Così l'unico modo per farsi sentire nel mondo, almeno per qualche giorno, è avere i propri giovani uccisi o feriti dai proiettili israeliani». Ma durerà poco. La debolezza palestinese è stata palese nel dicembre scorso, quando la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di ordinarvi il trasloco dell'ambasciata americana da Tel Aviv ha visto relativamente poche e deboli manifestazioni di protesta nelle strade palestinesi accompagnate dalla sostanziale apatia della comunità internazionale. Conclude Morris: «Non vedo svolte nelle manifestazioni palestinesi e neppure segnali particolari circa l'eventualità di una nuova intifada. Almeno per il momento. La situazione tra Gaza e la Cisgiordania mi sembra paralizzata».

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