Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/03/2018, a pag.10, con il titolo "Una nuova capitale per far sognare l'Egitto" il reportage di Francesca Paci dall'Egitto alla vigilia delle elezionio presidenziali.
Francesca Paci
Lo scheletro di quella che sarà la maggiore cattedrale egiziana sembra un miraggio tra le dune a una settantina di km dal centro del Cairo. L’ingegnere Sharif coperto di sabbia mostra il campanile e poi, più avanti, in mezzo al nulla oltre cui il deserto corre verso Suez, i palazzi dei ministeri, 25 mila abitazioni, il cantiere della gigantesca moschea che il presidente Al-Sisi vuole inaugurare tra tre mesi, alla fine del Ramadan. Tempi plausibili, dicono qui, sulle impalcature di New Capital, la nuova capitale amministrativa egiziana. I muratori in ciabatte ne hanno tirato su l’embrione in un anno, giorno e notte, venerdì compresi: domani voteranno tutti per Al-Sisi, e se qualcuno si asterrà è perché: «Il successo è assicurato». L’Egitto torna alle urne per la nona volta dalla cacciata di Mubarak, ma non si aspetta grandi emozioni dallo spoglio delle schede con due soli nomi: il capo di Stato in carica Abd al Fatah al-Sisi e il businessman 65enne Mousa Mostafa al-Mousa, suo ex supporter e oggi unico sfidante, presentatosi in extremis dopo l’eliminazione di 5 candidati, tra cui 3 alti ranghi dell’esercito. Più che alla politica, il batticuore nazionale è dovuto all’economia, cartina di tornasole di un regime a cui il Paese ha dato carta bianca per liberarsi dei Fratelli musulmani ma anche per far ripartire l’occupazione, il turismo, gli investimenti, la macchina inceppatasi nel 2011 ai primi vagiti di democrazia. «Il lavoro adesso non manca» butta là un operaio pavimentando case da 10 mila pound al metro quadro (460 euro) a poche dune dal mega Hotel Al Masa, terminato qualche mese fa e già location dell’ultimo Cairo Film Festival. E pazienza se con il salario di 150 pound al giorno (9 euro) non potrà mai vivere qui come nessuno degli 800 mila assorbiti dal progetto New Capital: intanto carpe diem e forza Egitto. Lontano dal deserto che il governo vorrebbe far fiorire entro il prossimo anno per accogliere 5 dei 20 milioni di cairoti, la città è la stessa ma sembra un’altra rispetto a quando 7 anni fa l’aeroporto era tappezzato con i complimenti di Obama per i coraggiosi ragazzi di Tahrir, reduci dalla rivoluzione del 25 gennaio. Oggi l’areoporto è nuovo, gru e impalcature supervisionate dall’esercito si moltiplicano, la svalutazione del pound ha attratto capitali stranieri e i turisti, soprattutto giapponesi e americani, sono tornati a far la fila al Museo egizio. Ma al netto di un aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici (tanti: uno ogni 13 abitanti) l’umore è nero. E non solo quello degli attivisti che, sostenuti dai rapporti dell’Onu e dell’Arab network for human rights, denunciano 60 mila prigionieri politici, 500 divieti di espatrio, 7513 civili processati da tribunali militari e 17 nuove carceri. Il leggendario popolo lamenta i sacrifici imposti dal prestito di 12 miliardi in tre anni concesso da Fondo monetario internazionale, vale a dire il taglio dei sussidi sull’elettricità, l’inflazione al 33%, il rincaro di benzina, sigarette, carta igienica. «Voterò per Sisi perché combatte i terroristi nel Sinai e perché mi fido, ma penso con ansia a quando dovrò ricomprare a mia figlia la cartella di scuola passata da 90 a 350 pound» ammette mamma Suad nel quartiere di Al-Abassya tappezzato, come ovunque, di manifesti con il presidente Al-Sisi e l’invito a votare. In un’elezione scontata come questa la bassa partecipazione (47,4% nel 2014) sarebbe il segno di una insoddisfazione nella quale, invitando al boicottaggio, confidano i 7 partiti d’opposizione del Civic democratic movement. Nei caffè dietro Talat Harb, dove gli ex ragazzi del 2011 si ritrovano per guardare la partita della Nazionale e parlare della propria depressione, il riferimento più frequente è al Grande Fratello. «Se ti guardi intorno non sembra di essere per le strade del Cairo ma dentro l’account Instagram di Al-Sisi» osserva Omar bevendo birra Stella e brindando ironico al maxischermo che campeggia nella non più iconica piazza Tahrir diffondendo i discorsi del presidente e la sua recente intervista con la regista copta Sandra Nashaat, in cui nega che l’esercito controlli più del 3% dell’economia. «C’è bisogno di mostrare un Paese sicuro e dinamico per far tornare gli investimenti stranieri che creano industrie e non limitarsi a quelli indiretti che attraverso le banche locali finanziano il boom immobiliare e le infrastrutture», ragiona l’analista Hany Tawfik, direttore dell’Arab Union for Risk Capital. I progressi si vedono, dice, dall’autostrada per Alessandria alla terza linea della metro. Ma non bastano: «Edilizia e infrastrutture sono piani a breve termine che si basano sui prestiti, e noi abbiamo già un debito pubblico da 250 mila pound a famiglia (12 mila euro)». Sulla panchina lungo il Nilo due fidanzati progettano il domani. Ci sono tre giorni di tempo: voterete? Si guardano intorno, «la vita è lunga».
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