Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 24/03/2018, a pag.11, con il titolo "Foxtrot, di Samuel Maoz" la recensione di Mariarosa Mancuso
Oggi leggiamo spesso accanto al titolo di un film " tratto da una storia vera", come se la cosa fosse di qualche importanza. Al film di Maoz, diretto e interpretato in modo straordinario, avrebbe però giovato una frase in apertura del film all'opposto di quella citata prima, cioè " questo film non è tratto da una storia vera". Non scriviamo perchè, non vogliamo influenzare il giudizio di chi andrà a vederlo.
In Israele, l'industria cinematografica riceve il sostegno finanziario dal Ministero della Cultura, che non interviene nè emette giudizi sui film che vengono girati in assoluta libertà. E' bene non dimenticarlo, per non confondere realtà e finzione, essendo ques'ultima alla base della trama del film in questione.
Mariarosa Mancuso
Film di debutto, e fu subito Leone d’oro. Nessuno – a parte i suoi produttori, l’idea era geniale – aveva sentito parlare del regista e sceneggiatore Samuel Maoz prima di “Lebanon”. Vinse la Mostra di Venezia nel 2009, nell’al - bo d’oro dei premiati che non prendono il pubblico a cazzotti (nella stessa lista sta il vincitore del 2017, Guillermo del Toro con “La forma dell’acqua”). Novantacinque avvincentissimi minuti all’inter - no di un carro armato, durante la prima guerra del Libano. Quattro soldati israeliani, e chi per scelta o per disgrazia finisce dentro l’abitacolo: un ufficiale poco gentiluomo, un cadavere, un prigioniero siriano, un falangista che si dichiara alleato. La prima scena di “Foxtrot” sembra continuare il film del carro armato (dove l’unico esterno era la fotografia al muro di un’agenzia viaggi mezza distrutta). La mamma con il figlio soldato apre la porta, vede tre giovanotti in divisa e sviene all’istante. Il marito ascolta la tragica comunicazione, e rimane impassibile. Salvo reagire malamente a chi gli raccomanda di bere un bicchier d’acqua a scadenze regolari, utile contro lo stress (“la cura dell’acqua pura”, come nel titolo del romanzo di John Irving). Il rabbino in forze all’esercito aumenta la rabbia invece di placarla. Tragedia, e siamo solo al primo atto, con molti primi piani sul volto attonito di Lior Ashkenazi. Nel secondo atto, la noia di un posto di blocco in mezzo al deserto: dovrebbe fermare e identificare i terroristi, la sbarra quasi sempre si alza per far passare avanti e indietro un cammello. I militari dormono in un container che lentamente si inclina (lo si capisce dalle lattine che rotolano sempre più veloci sul pavimento). Ci sarà un terzo atto, con un magnifico intervallo a fumetti – l’avamposto lascia molto tempo libero, anche per provare le mosse del foxtrot abbracciando un mitra, quando la radio trasmette vecchie canzonette. E i rivolgimenti di una trama che non si lascia prevedere. Destino, lutto, dolore, legami familiari: più ambizioso e meno compatto di “Lebanon”, “Foxtrot” ha vinto l’anno scorso a Venezia il Gran Premio della Giuria. Da rincorrere, come “Un sogno chiamato Florida”
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