Giordano Stabile
La turchia di Ataturk e quella di Erdogan
Afrin è caduta ieri mattina all’alba. La divisione Al-Hamza dell’Esercito libero siriano è avanzata senza quasi incontrare resistenza, dopo che le truppe speciali turche erano entrate nella città curda e constatato che la maggior parte dei guerriglieri dello Ypg si erano già ritirati. In poche ore i militari di Ankara e i miliziani arabi hanno preso tutti i punti strategici. Le bandiere turche, rosse con la mezzaluna, sono spuntate ovunque, a partire dal balcone del municipio, mentre quelle gialle, rosse e verdi dei curdi finivano stracciate e calpestate.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan già alle 8 e 30 del mattino annunciava la «vittoria». È arrivata anche prima del previsto, dopo meno di due mesi dal lancio dell’operazione Ramoscello di ulivo. Per il leader della risorgente potenza ottomana è un risultato importante. Ora tutti i territori sotto il suo controllo nell’angolo nordoccidentale della Siria sono collegati e formano una piccola mezzaluna. È la «zona di influenza» che cercava per pesare al tavolo delle trattative del dopo-guerra, quando mai arriverà, e in prospettiva la possibilità di annettersi di fatto quasi 10 mila chilometri quadrati di territorio siriano.
In fuga da Afrin
Il leader dei curdi siriani Salih Muslim ha cercato di rincuorare i suoi, ha detto che si tratta soltanto di una ritirata temporanea, «per evitare un massacro», e che «la battaglia per Afrin» continuerà, sotto forma di guerriglia però: «Diventerà un inferno per gli invasori turchi», ha ribadito un comandante locale. Ma il prestigio dello Ypg è a terra. La delusione fra i curdi corre sui social media da Erbil a Kobane, dall’Iraq alla Siria. I curdi si sentono abbandonati dagli Stati Uniti, che pure hanno combattuto al loro fianco a Raqqa contro l’Isis, e dalla Russia, interessata prima di tutto a tenere Erdogan dalla sua parte nella complessa partita siriana.
Un altro vincitore è l’Esercito libero siriano, sconfitto dalle truppe di Bashar al-Assad in quasi tutta la Siria, sul punto di arrendersi nella Ghouta assediata, dove il raiss proprio ieri ha fatto visita ai suoi militari al fronte, ma risorto ad Afrin con l’appoggio della Turchia. È un esercito molto arabo e anti-curdo. Per prima cosa i miliziani hanno abbattuto la statua del fabbro Kawa, l’eroe mitologico dei curdi, l’umile che lotta contro il tiranno. La statua era stata inaugurata due anni fa al centro della principale rotonda all’ingresso della città. Le foto diffuse dai combattenti la mostrano piegata all’altezza delle ginocchia, un simbolismo fin troppo potente.
Anche se Erdogan insiste che la guerra «non è contro i curdi ma soltanto contro lo Ypg» è chiaro che al momento non c’è più posto per i curdi ad Afrin. Dei circa 300 mila che popolavano la città all’inizio della battaglia almeno 250 mila sono fuggiti, la maggior parte verso i territori governativi, soprattutto ad Aleppo. Ankara progetta di trasferire nel cantone 170 mila rifugiati siriani, ma di etnia araba e tatte che la maggior parte sourkmena. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, vicino ai ribelli, 1400 persone sono rimaste uccise in due mesi di combattimenti e raid.
La Turchia ribno combattenti dello Ypg, e che fra morti, feriti e prigionieri «3700 terroristi sono stati neutralizzati». Erdogan insiste anche, e lo ha fatto di nuovo sabato da Dyarbakir nel Kurdistan turco, che le operazioni dell’esercito turco in Siria non si fermeranno ad Afrin. Nel mirino c’è Manbij, un altro centro controllato dallo Ypg. È un boccone più difficile, perché assieme ai curdi c’è un piccolo contingente americano, ma il successo spinge a osare.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante