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La Stampa-La Repubblica Rassegna Stampa
17.03.2018 Nicole Krauss, il suo nuono romanzo 'Selva Oscura'
Recensione di Elena Loewenthal, intervista di Susanna Nirenstein

Testata:La Stampa-La Repubblica
Autore: Elena Loewenthal-Susanna Nirenstein
Titolo: «Puoi perderti e poi nritrovarti nella 'selva oscura' di Tel Aviv»

Riprendiamo oggi, 17/03/2018, due recensioni al nuovo romanzo di Nicole Kraus, la prima di Elena Lowenthal sulla STAMPA a pag.IV, la seconda sulla REPUBBLICA a pag.39, l'intervista all'autrice di Susanna Nirenstein.

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Nicole Krauss

La Stampa/TuttoLibri-Elena Loewenthal:"Puoi perderti e poi nritrovarti nella 'selva oscura' di Tel Aviv"

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Elena Loewenthal

Il vero protagonista dell’ultimo romanzo di Nicole Krauss, che s’intitola Selva Oscura non a caso perché il riferimento al Poeta c’è eccome e che è stato tradotto con maestria da Federica Oddera (non un cedimento in un confronto con l’originale che non deve essere stato una passeggiata), è un albergo. Non nel senso dell’umanità che vi circola, delle storie che a volte vi si incrociano, dei segreti che nasconde. L’Hilton di Tel Aviv è a nord del centro città, verso quelle zone residenziali che sono oggi molto di tendenza. Sta sul mare, che qui presenta una rara insenatura, forse artificiale, divisa da un piccolo capo che incrina la spiaggia. Sul fronte meridionale del capo c’è la zona preferita dagli etero, il lato opposto è per lo più popolato da bagnanti gay. Gli uni e gli altri sono sovrastati da quell’enorme edificio in puro stile brutalista che spezza il paesaggio, s’impone con una sfacciata prepotenza edilizia. È parte della bellezza disarmonica, spiazzante, a tratti scalcinata e a tratti smagliante di una città che già nel nome porta tutte le sue contraddizioni, contiene la nostalgia che desta quando le stai lontana per un po’: Tel Aviv vuol dire alla lettera «tumulo archeologico della primavera». «Tel» indica quel genere di alture diffuse nel Medioriente che nascondono reperti remoti. «Aviv» è la primavera: della natura, della storia. Il protagonista del nuovo romanzo di Nicole Krauss, che è una storia sempre almeno doppia, piena di scatti d’azione ma anche di dolcezza, è l’Hilton di Tel Aviv: «un massiccio parallelepipedo di cemento sorretto da pilastri… più si osserva questa mostruosità piazzata a sbalzo sopra il litorale, più si ha l’impressione che serva a qualche scopo più recondito di cui possiamo solo intuire il senso, geologico o mistico che sia». All’Hilton di Tel Aviv tornano, in due diverse dimensioni del tempo e fors’anche dello spazio, i due protagonisti della storia: Jules Epstein e Nicole. Nicole è (non a caso) un’affermata giovane scrittrice americana con un matrimonio in crisi e due figlioletti, mentre Epstein (che compare quasi sempre solo con il cognome) è un ricco americano di mezza età, collezionista d’arte, voracemente curioso. Quest’ultimo in particolare è un personaggio cui non ci si può non affezionare, per le sue mattane ma anche per la sua strepitosa coerenza nel seguirle, per le occasioni in cui sembra capiti per pura fatalità eppure se le è andate a cercare. La storia del suo telefonino che per qualche imperscrutabile ragione da New York finisce a Gaza è un’epopea spassosa. Dei due protagonisti spinti per qualche strana ragione a venire a Tel Aviv, Epstein è quello che raccoglie sicuramente più simpatie. Fatto si è che entrambi, che non si incrociano (quasi) mai, lasciano la loro New York come spogliati della propria vita e a Tel Aviv trovano o perdono qualcosa di fondamentale in un intreccio narrativo che passa per un rabbino svitato, Franz Kafka, un pizzico di Mossad che quando c’è Israele non guasta mai, re Davide, un gruppo di cineasti sperimentali e tante altre cose interessanti. Inutile provare a raccontarlo, si perderebbe il filo e sarebbe un torto al lettore cui auguriamo di farsi coinvolgere dalla trama. Tanto Epstein quanto Nicole arrivano infatti a Tel Aviv spogli: il primo in particolare perché ha deciso di dare via tutto quel tanto che ha, non per trasporto mistico ma per noia. Nicole parte invece dopo una strana vertigine venuta un giorno a New York, quando si era sentita in due posti diversi, e l’unico posto dove conciliarsi con questo straniamento è Israele perché qui «nessuno si trova d’accordo su come il mondo appare, e malgrado la violenza degli interminabili battibecchi, questa fondamentale ammissione di discordia mi ha sempre riempita di sollievo». Le storie dei due protagonisti, i loro spostamenti, le scoperte che fanno e i misteri che non risolvono si avvicendano nel romanzo in una sequenza di capitoli alternati, ma c’è qualcosa che unisce questi due ebrei diasporici persi in una Terra Promessa in cui forse l’unico punto fermo è quella specie di immenso meteorite che è l’Hilton, da dove tutti e due partono nella loro esplorazione e prima o poi vi fanno ritorno. C’è su tutto, malgrado la frenesia di certi momenti, malgrado l’incalzare di eventi, malgrado le tante sorprese che attendono i nostri due compagni di viaggio, una dolcezza gentile, un modo di guardare e amare lo strano e inafferrabile paese in cui si svolge quasi tutta la storia. E soprattutto ciò che sta intorno all’Hilton: Nicole Krauss è stata capace di estrarre da Tel Aviv la poesia che sta nascosta in questa città post moderna eppure malinconica, capace di lasciarti una nostalgia solare, ma lancinante.

La Repubblica-Susanna Nirenstein: "Ah, se Kafka fosse stato in Israele"

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Susanna Nirenstein

Selva oscura, questo affascinante, pensoso, misterioso nuovo romanzo di Nicole Krauss, la scrittrice dei pluripremiati La storia dell’amore e La grande casa (tutti Guanda), è il più ebraico e il più autobiografico che abbia scritto. Spesso i suoi protagonisti sono stati ebrei ed il passato e la memoria hanno disseminato le pagine di sfide vitali, ma qui è diverso: tra i due personaggi principali — che cercano ognuno per conto suo una rinascita in Israele — c’è un’autrice famosa di 39 anni di nome Nicole, con un blocco di scrittura (l’ultimo libro della Krauss è uscito 7 anni fa), due figli (come i suoi), un divorzio recente (come quello con Jonathan Safran Foer), una storia familiare interconnessa con Gerusalemme e Tel Aviv. Dunque è lei? L’altro è Julian Epstein, uomo d’affari ricco e spregiudicato, 67 enne, anche lui ebreo e newyorkese, in piena crisi esistenziale, tutto preso a liberarsi dei suoi beni e di ogni legame, desideroso di rifondarsi, magari finanziando un film su Re David, di cui un energico chassid gli rivela che è un discendente. C’è anche un terzo incredibile personaggio sulle pagine, Kafka, che, come un ex agente del Mossad rivela a Nicole, non sarebbe morto in Europa nel 1924, ma fuggito alla sua infelicità per approdare in Palestina reinventandosi una vita anonima da poetico giardiniere. Romanzo coinvolgente, difficile (spesso con humour). Urge fare qualche domanda alla Krauss, che sentiamo via skype, mentre, sorridente, indossa un luminoso pullover bianco e grandi occhiali dalla montatura nera.
Mrs Krauss, in questo romanzo c’è dovunque Israele. Cosa rappresenta per lei?
«Ha sempre rappresentato una vita alternativa, non solo fantastica, ma geografica, reale. Quattro generazioni della mia famiglia hanno in parte vissuto là, e là si sono innamorati. I miei raccontavano mille storie avvenute a Gerusalemme o Tel Aviv, e su quei luoghi ho sperimentato la mia prima immaginazione. È sempre stata una fonte di possibilità».
Il suo nome, il suo divorzio, la sua storia: come mai si è esposta così tanto?
«Mi sono sempre esposta. I quattro personaggi di La grande casa scorrevano sotto la mia pelle anche senza il mio nome. La letteratura può espanderti potentemente. Ho voluto farlo apertamente e far entrare il lettore in questo processo, senza nascondermi». Metamorfosi e ricerca di un nuovo sé sono al centro del romanzo. Ma fino a che età un uomo può rifondarsi?
«I genitori creano una narrativa a cui vuoi e devi rimanere coerente. Ma sappiamo anche che quella storia è troppo piccola, che dobbiamo evolvere uscendo dallo schema. Fino a quando? Fino all’ultimo giorno della nostra vita».
Molti scrittori ebrei americani ambientano romanzi in Israele, da Nathan Englander a Joshua Cohen, al suo ex marito Safran Foer. Secondo lei è Israele l’ineludibile check point attraverso cui ogni autore ebreo, ogni ebreo, oggi deve passare o arrivare?
«Israele è nato da una diaspora, un progetto che ci appartiene, ma ora è una realtà e gli israeliani stanno chiedendosi con urgenza chi sono a 70 anni dalla fondazione dello Stato, vanno avanti velocemente. E mentre il paese e il linguaggio evolvono, noi ebrei americani assimilati che abbiamo uno scarso accesso all’ebraico e non abbiamo un’esperienza stabile in Israele, vogliamo capire i nostri partner, vorremmo partecipare, ci chiediamo chi saremmo se fossimo in Israele, e soprattutto a che storia emozionale vorremmo appartenere».
Improvvisamente nel romanzo troviamo Kafka in Israele. Come le è venuta in mente questa sorpresa storica?
«( ride) Amo le sorprese. E Kafka è sempre stato un autore fondamentale per me. Questa volta, mentre ero nel deserto cercando di capire che fine avesse fatto Epstein, una notte sono stata folgorata: certo! Kafka era stato lì, aveva vissuto in Israele. D’altra parte tutta la sua storia la sappiamo così come ce l’ha raccontata Max Brod. E invece la sua infelicità fa presumere un desiderio di fuga e di ripartenza: in Israele ci sarebbe senz’altro stata la sua vita più autentica».
Lei descrive un periodo di vuoto traumatico nella vita di due persone. Poi parla del vuoto che, secondo la Cabala, Dio creò ritirandosi per dar vita al mondo. Che ruolo gioca il misticismo ebraico nella sua vita?
«Non ho un senso mistico. Trovo belli, profondi alcuni ragionamenti delle Scritture. E questa descrizione del vuoto mi ha fatto pensare alla pagina bianca, alla nostra vita, a come possiamo riempirla. Ho letto tanto per conto mio, ma non so niente di Cabala, da poco tempo partecipo però a un gruppo di studio mensile, e abbiamo un bravissimo insegnante».
Nei suoi libri ogni tanto qualcuno sparisce nel deserto.
«Il deserto è la possibilità di cancellare e mettersi in connessione con qualcosa di più interno e infinito, con qualcosa di più profondo. Lo so che talvolta qualcuno ne esce con una rivelazione mistica. Non è questo il caso. Mi connette allo stupore».
Da dove vengono le sue idee, come ha creato Epstein?
«Solo incontrandolo sulla pagina. Non pianifico mai il mio lavoro. So che altri lo fanno. Io do forma al romanzo, ai personaggi mentre scrivo, esattamente come poi li vedrà il lettore».
Nicole Krauss. La scrittrice ebrea americana ha pubblicato in Italia La storia dell’amore e La grande casa (entrambi da Guanda)

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