Un sondaggio allarmante
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
nell’esaminare gli orientamenti collettivi almeno tre cose andrebbero tenute sempre presenti, e noi ne abbiamo avuto una prova notevole nelle elezioni della settimana scorsa. La prima è che non sempre i sondaggi sono uno strumento credibile, tanto sono condizionati dal singolo momento in cui sono fatti, dal tenore delle domande, dalla percezione degli intervistati di quel che ci si aspetta che loro debbano dire.
Certamente questi limiti possono essere in parte superati dalla professionalità degli istituti di ricerca, dalla formulazione il più possibile neutra delle questioni e dalla ripetizione a distanza di tempo dello stesso sondaggio, per verificare più che i valori assoluti influenzati da questi fattori, gli scostamenti dei risultati dopo un certo periodo. Ma resta una certa inevitabile alea.
L’altro punto che bisogna tener presente è un certo grado di irrazionalità dell’opinione pubblica. Non per quanto riguarda i fini e i valori in se stessi che il pubblico predilige, come l’uguaglianza o la ricchezza, la giustizia o la libertà, perché è chiaro che si può dare un giudizio etico su questi scopi, ma non c’è metro di paragone per discutere o addirittura gerarchizzare la loro razionalità.
Ma l’opinione collettiva può non tener conto della loro realizzabilità in tempi ragionevoli alla luce delle condizioni presenti.
O ancora può non avere una percezione razionale dei rapporti fra mezzi e fini che può portare a scegliere mezzi inadeguati e controproducenti, in particolare a selezionare una rappresentanza politica che non è probabile aiuti davvero ad avvicinarsi ai fini desiderati.
E’ chiaramente il caso delle ultime elezioni italiane, almeno del voto per i 5stelle.
Il terzo aspetto che andrebbe tenuto presente è il peso della propaganda, non solo e non tanto di quella esplicita, che si fa per esempio (ma sempre meno) durante la campagne elettorali. Ma soprattutto di quella implicita, non dichiarata esplicitamente e dunque mai discussa, che gli studiosi cognitivisti di comunicazione politica caratterizzano col termine inglese “frame”, cioè cornice concettuale.
Se io, per esempio, definisco le terre al di là della linea verde in Israele come “territori palestinesi occupati”, non ho bisogno di argomentare sulla presunta necessità di eliminare quegli insediamenti che in questo caso definirò automaticamente “colonie”; lo stesso, anche se in maniera meno accentuata, se parlo di “Cisgiordania” o “West Bank”, che classificano quelle terre come un’appendice della Giordania (mentre in realtà è storicamente vero l’opposto, cioè la Transgiordania, chiamata da un certo momento Giordania, è stata ritagliata dal Mandato Britannico).
Se parlo di Giudea e Samaria naturalmente le cose cambiano. Lo stesso fatto di chiamare “palestinesi” gli arabi che vivono fra il fiume Giordano e il Mediterraneo (o quelli che ne sono emigrati nell’ultimo secolo) è un frame pericoloso e ingannevole, perché dà un’identità distinta a una popolazione che non ha una base storica comune. Lo stesso accade se definisco col nome storico di “Europa” quell’organizzazione nuova e burocratica che si chiama Unione Europea: in questo modo diventano “europee” delle politiche come quelle relative all’immigrazione clandestina che sono fatte proprio per destrutturare e depotenziare l’Europa, intesa come la tradizione storica di popoli che si sono progressivamente definiti nel continente europeo come stati nazione tendenzialmente omogenei.
Apartheid?
Tutti questi fattori incidono sulla notizia (una pessima notizia) che voglio darvi oggi. Da un sondaggio fatto fra la popolazione arabo-israeliana. L’inchiesta è stata pubblicata nei giorni scorsi ma è stata condotta fra luglio e agosto dello scorso anno dal Prof. Sami Samuha dell’Università di Haifa (https://worldisraelnews.com/poll-half-israels-arabs-dont-recognize-countrys-right-exist). Cito i risultati da un articolo del Jerusalem Post (http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Survey-Israeli-Arab-Jewish-relations-rapidly-deteriorating-544594 ).
“Più della metà dei cittadini arabi non accetta che Israele sia uno stato a maggioranza ebraica e non riconosce Israele come uno stato ebraico e democratico, una crescita significativa rispetto ai risultati del 2015. Mentre il 60,3% degli intervistati arabi accettava Israele come uno stato a maggioranza ebraica nel 2015, nel nuovo sondaggio solo il 44,6% lo ha fatto. Coloro che accettano Israele come stato con l'ebraico come lingua dominante sono passati dal 63,4% nel 2015 al 49,7% nel 2017.
Coloro che hanno accettato che Israele avesse la Legge del ritorno sono scesi dal 39% al 25,2%. […]
Allo stesso tempo, tuttavia, il numero di intervistati arabi che ritengono che Israele sia un buon posto per vivere rimane alto, totalizzando il 61,9% nell'indagine corrente rispetto al 64% nel 2015.
E la proporzione che ha affermato di preferire vivere in Israele rispetto a qualsiasi altro l'altro paese è aumentato, passando dal 58,8% nel 2015 al 60% nel 2017. Alla domanda se sarebbero stati disposti a trasferirsi in un futuro stato palestinese, il 77,4% ha dichiarato di no nell'attuale indagine, rispetto al 72,2% nel 2015.”
E’ banale buon senso che se uno stato ti piace tanto da preferirlo a tutti gli altri da rifiutare anche l’idea di accettare la sovranità di chi vorrebbe soppiantarlo, devi considerare positivamente le sue realizzazioni e dunque apprezzare il sistema che le produce.
Ma questo qui non accade, il frame palestinista prevale progressivamente e la contraddizione fra mezzi e fini (o fra fini: il benessere e la distruzione di Israele) non è colta.
Ma lamentarsi dell’irrazionalità dell’opinione pubblica non basta mai.
Questo sondaggio è allarmante perché conferma quel che si era già visto nella partecipazione di parecchi arabi israeliani ad atti di terrorismo grandi o minori: vi è un fronte interno su cui Israele rischia di ricevere dei danni duri perché inaspettati da parte di propri cittadini che godono di tutti i diritti democratici e di una situazione socioeconomica molto migliore dei loro consimili negli stati vicini.
E’ una battaglia difficile, perché riguarda i frame, come quella nel mondo occidentale. Ma va combattuta e vinta perché ne dipende la sicurezza di Israele
Ugo Volli