Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/03/2018, a pag.13, con il titolo "Gerusalemme sia il comune di tutti. Io palestinese mi candido sindaco", il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal Ramadan Dabash
Segnaliamo in merito alle scelte della minoranza arabo musulmana israeliana, l'intervento di Ugo Volli in altra pagina di IC, indispensabile per capire le contraddizioni degli arabi che non partecipano al voto per non riconoscere lo Stato di Israele -come riporta Loewenthal- ma non abbandonerebbero mai lo Stato ebraico -di cui sono cittadini- per diventare sudditi di uno Stato palestinese.
Ugo Volli
Gerusalemme è una città dove il tempo ha le sue misure. E’ apparentemente immobile come la pietra chiara di cui sono fatte le sue case, eppure ha una straordinaria e imprevedibile capacità di cambiare e far cambiare le cose. Mentre il mondo discute intorno alle dichiarazioni di Trump e aspetta di vedere quando e come l’ambasciata americana (seguita a ruota, forse, da quella di altri paesi come il Guatemala e la Repubblica Ceca i cui presidenti si sono espressi in tale direzione) salirà da Tel Aviv a questa città tanto eterna quanto fragile, lassù succedono cose fino a poco tempo fa impensabili. A ottobre di quest’anno ci saranno infatti le elezioni municipali in questa città che dal 1967 in poi ha visto avvicendarsi soltanto quattro sindaci – il mitico Teddy Kollek fino al 1993, Ehud Olmert (1993-2003), Uri Lupolianski (2003-2008) mentre da dieci anni ormai è saldamente guidata da Nir Barkat. Sempre nel 1967, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni e di quella che per Israele fu la riunificazione della città e per i palestinesi l’inizio dell’occupazione, questi ultimi, che rappresentano circa il 37 per cento della popolazione totale di Gerusalemme, sancirono un boicottaggio politico sino ad oggi mai smentito. Partecipare alle elezioni municipali, sia da votanti sia da candidati, avrebbe per loro significato accettare in qualche modo la sovranità israeliana su Gerusalemme. Qui vivono infatti ebrei e arabi con passaporto israeliano oltre a residenti della zona est della città che hanno assistenza sociale e diritto di voto nelle consultazioni amministrative. «Ritengo che per la popolazione sia giunto il momento di votare. Secondo alcuni questo sarebbe una forma di normalizzazione e “israelianizzazione” di Gerusalemme, ma io dirò loro che questo deve essere il comune di tutti, il paese di tutti», ha dichiarato Ramadan Dabash annunciando la creazione di un partito palestinese pronto a correre nelle prossime consultazioni. Dabash è un ingegnere che vive a Gerusalemme est, ha il suo studio nella parte occidentale della città, ha studiato al Technion di Haifa e poi a Mosca, insegna a Tel Aviv, è presidente del consiglio locale del quartiere di Tzur Baher, ha quattro mogli, un sacco di figli e un programma politico animato di sano pragmatismo: «Non ho nessuna intenzione di rinunciare alla moschea di Al-Aqsa, di convertirmi all’ebraismo o abbandonare il nazionalismo palestinese. Ma dobbiamo avere il nostro posto in consiglio comunale». La mossa di Dabash ha subito destato reazioni tanto animate quanto contrastanti. Per molti palestinesi di Gerusalemme esercitare il diritto di voto alle prossime elezioni municipali è ancora un tabù, ma tanti altri sono dell’avviso che le cose debbono cambiare, e così la pensa anche quel 60 per cento di israeliani della città favorevole alla partecipazione politica dei palestinesi. Proprio lo stallo del processo di pace e la crescente frustrazione con cui guardano all’inerzia dell’Autorità Palestinese potrà indurre le nuove generazioni di palestinesi di Gerusalemme a prendere l’iniziativa sul piano locale, prima di tutto andando a votare. Dabash è fortemente motivato, sa che dovrà affrontare una strenua opposizione interna e per questo non ha aspettative troppo ambiziose. Ma il suo gesto è di per sé il segno non soltanto di un futuro cambiamento che sarà presumibilmente tanto lento quanto inevitabile, e che prima o poi trasformerà il volto della dirigenza gerosolimitana. E’ prima di tutto la testimonianza di quanto Gerusalemme sia per davvero al centro del mondo, per lo meno del suo – di quel Medioriente che per sopravvivere alla propria storia non può che diventare una palestra di convivenza: perché se di qui è uscita la parola del Signore, come dice la Bibbia, di qui e non altrove potrà venire anche quella “parola” creativa in grado di offrire soluzioni politiche praticabili, in un delicato ma necessario equilibrio fra passato e futuro.
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