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Il Foglio Rassegna Stampa
08.03.2018 Niger: l'imboscata dei terroristi islamici contro i soldati americani
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 08 marzo 2018
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Imboscata in Niger»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/03/2018, a pag. I con il titolo "Imboscata in Niger" l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri

Lo Stato islamico ha dato la caccia per mesi a un video di dieci minuti perché voleva usarlo per la sua propaganda e dimostrare così di essere ancora un gruppo attivo e molto pericoloso. Oltre ai terroristi, anche molti giornalisti di grosse testate internazionali hanno cercato quel video perché potrebbe mettere in imbarazzo l’Amministrazione Trump e la Difesa americana. Domenica 4 marzo, mentre l’Italia era concentrata sulle elezioni nazionali, il video è uscito su alcuni canali anonimi di Telegram – è un’applicazione via internet molto usata grazie alla segretezza che garantisce ai suoi utenti. Il giorno dopo il Pentagono ha intimato ai media di non pubblicare il video perché in caso contrario “potreste essere complici della propaganda dello Stato islamico”. Grazie ad alcune fonti che preferiscono restare anonime, possiamo raccontare il retroscena di questa caccia. La faccenda riguarda anche l’Italia perché quel video di combattimento è stato girato in Niger, dove tra poche settimane comincerà una missione militare autorizzata a gennaio dal nostro Parlamento e le immagini sono prese nello stesso contesto in cui vanno a operare i soldati italiani. Per capire meglio è necessario conoscere l’antefatto. Il 4 ottobre scorso una banda di guerriglieri islamisti che ha dichiarato fedeltà allo Stato islamico e che si fa chiamare “Stato islamico nel Grande Sahara” tende un’imboscata a un gruppo delle Forze speciali americane in missione assieme con i soldati nigerini per raccogliere informazioni in un villaggio che si chiama Tongo Tongo al confine tra Niger e Mali. Poiché il governo americano gestisce operazioni militari in molti paesi e negli stessi anni, le forze speciali americane si sono divise le aree geografiche in cui vanno in missione. In Libia e Iraq è più facile incontrare i militari della Delta Force, in Somalia e in Afghanistan ci sono quelli dei Navy Seals, in Niger e in altri stati africani tocca ai Berretti Verdi.

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I guerriglieri nascosti nella selva danno l’assalto al convoglio appena esce dal villaggio, uccidono quattro soldati americani e cinque soldati nigerini e alla fine dell’imboscata si impadroniscono delle piccole telecamerine digitali montate sugli elmetti dei Berretti Verdi – che come si è detto sono forze speciali, quindi dispongono di un equipaggiamento superiore allo standard – e che hanno registrato tutto, compresa la morte dei loro proprietari. Tutto quello che sappiamo dell’ag - guato è perché lo vediamo nel video. I soldati americani non realizzano subito di essere finiti in un guaio grosso: sentono i colpi arrivare dal fitto della boscaglia, non capiscono l’entità superiore della forza che li sta assalendo e scendono dalle macchine non blindate per rispondere al fuoco. Invece che accelerare via e sottrarsi così alle raffiche sempre più vicine, per tutti i minuti che restano – che gli esperti militari che hanno analizzato il filmato definiscono “insensati” dal punto di vista tattico – camminano dietro la loro Land Rover e a passo d’uomo si avvicinano a una zona con meno alberi dove hanno lanciato un paio di fumogeni rossi. Il fumo rosso è un segno convenzionale per segnalare la loro posizione ai piloti degli aerei che dovrebbero accorrere e bombardare i guerriglieri o degli elicotteri che dovrebbero arrivare a portare via i soldati. Ma non c’è nessun soccorso dall’alto a salvarli dall’imboscata. Fino all’ultimo non si erano resi conto di essere in una zona pericolosa come l’Iraq o l’Afghanistan. Uno dopo l’altro tre americani che sono rimasti separati dai loro compagni cadono sotto i colpi e sono finiti a terra dagli ultimi spari dei guerriglieri che arrivano a torreggiare sopra di loro. Le telecamere mute continuano a riprendere. Muore anche un quarto soldato ma non si vede, è rimasto ancora più indietro e infatti il suo corpo sarà recuperato soltanto il giorno successivo, dopo una massiccia operazione di ricerca. Si tratta, com’è facile comprendere, di materiale video molto prezioso per la propaganda dello Stato islamico in Siria e in Iraq, che nel 2017 è passata attraverso una serie di sconfitte disastrose e in pratica ha perso tutto il suo territorio, salvo una striscia di villaggi isolati nel deserto. Il settore dello Stato islamico che si occupa di confezionare filmati di propaganda in effetti continua a mettere su internet almeno una clip di combattimenti ogni settimana, sempre tagliata con la solita estetica tonitruante – morti ammazzati, colpi di mortaio, assalti ravvicinati – ma si tratta quasi sempre di scaramucce con i curdi da quattro-cinque morti in mezzo a un arido nulla, tutta roba che è scaricata online e vista soltanto dagli specialisti e dai fan. Non bucano l’indifferenza dei media, non fanno notizia. Altra cosa sarebbe se lo Stato islamico mettesse su internet un video ben strutturato in cui i suoi adepti in Africa massacrano soldati delle forze speciali americane.

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Soldati del Niger

Pare già di leggere le analisi e le reazioni: l’inarrestabile espansione africana del jihad; l’arroganza incauta della politica americana; il Vietnam di Tongo Tongo. Il problema è che questa costola africana dello Stato islamico è terribilmente scarsa dal punto di vista tecnologico. Il capo Abu Walid al Sahrawi sa di avere tra le mani un tesoro in formato digitale, ma si muove con i suoi in un’area di boscaglia infinita tra il Mali e il Niger e non sa come farlo arrivare al settore media dello Stato islamico che oggi è nascosto da qualche parte in Siria e Iraq oppure più probabilmente – come si sussurra tra gli osservatori – in qualche appartamento in Turchia. Sono lontani i tempi in cui bastava mandare fisicamente un emissario a Raqqa per entrare in contatto con i capi del gruppo. Sono lontani anche i tempi in cui lo Stato islamico spediva dalla Turchia alla Libia, via aeroporto Mitiga di Tripoli, una squadra con tre telecamere, un drone e una piccola gru per girare il famigerato video dello sgozzamento di ventuno egiziani copti sulla spiaggia di Sirte. Era il gennaio 2015 (il video montato uscì un mese dopo) e si trattava della stessa scena che terminava con l’immagine del portavoce dello Stato islamico che puntava il coltello al di là del mare e minacciava Roma. Tre anni di guerra devastante e di operazioni d’intelligence da parte dell’occidente hanno tagliato molti legami, hanno reso difficili i contatti via internet, hanno spazzato il sottobosco clandestino dove avvenivano scambi e incontri. Lo Stato islamico e i suoi supporter africani sono isolati. Gli uomini di al Sahrawi inoltre vorrebbero che la loro impresa, sorprendere e ammazzare quattro soldati americani, valesse come biglietto d’ingresso definitivo nello Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi perché questo sul lungo termine consente di avere accesso ai finanziamenti. Affiliarsi conviene, come sanno per esempio gli estremisti filippini che ai tempi d’oro (quindi un paio di anni fa) ricevettero finanziamenti lauti per formare un gruppo locale che riuscì a finire su tutte le televisioni del mondo per la battaglia di Marawi. Ma sebbene i guerriglieri della selva abbiano dichiarato la loro fedeltà ad al Baghdadi nel 2016 non hanno ancora ricevuto risposta, sono stati snobbati, manca ancora la conferma ufficiale da parte dell’ufficio centrale. Dev’esse - re una delusione ascoltare i rari discorsi pubblici del Califfo rimasto senza califfato e non essere mai menzionati. Per questi motivi decidono quindi di farlo loro, il video, e di etichettarlo come se fosse una produzione ufficiale dello Stato islamico.

Ci mettono un po’ di immagini di repertorio, qualche discorso preso dai filmati veri del gruppo, qualche spezzone girato in proprio – per esempio i guerriglieri che si avvicinano di soppiatto al luogo dell’imboscata – e poi il pezzo forte, le immagini conservate nelle schede di memoria delle telecamere dei soldati uccisi. Il Pentagono intanto tace sull’esistenza dei video. Il caso dei quattro Berretti Verdi uccisi è imbarazzante un po’ perché il grande pubblico americano nemmeno sapeva l’esistenza di una missione militare che coinvolge mille uomini in Niger e soprattutto perché si rincorrono mille voci: i quattro soldati sono stati abbandonati, uno di loro è finito prigioniero ed è stato torturato e poi ucciso a sangue freddo il giorno dopo, se non ci fossero stati gli aerei francesi tutti i soldati americani sarebbero stati uccisi o catturati e anche: com’è possibile che fosse stata catalogata come una “missione a basso rischio”? Qui qualcuno rischia di pagare. Il presidente americano, Donald Trump, per dodici giorni non menziona in nessun modo la morte in combattimento dei quattro. Quando il sette ottobre torna in America il corpo dell’ultimo soldato lui è a giocare a golf. Dopo le prime proteste dei giornali contro la sua indifferenza verso i soldati telefona alla moglie di uno dei caduti e le dice che il marito “sapeva a cosa andava incontro”, che è senz’altro vero per professionisti delle forze speciali ma non è la prima cosa che diresti per consolare qualcuno di una perdita improvvisa. Il Pentagono sostiene che i militari non sono mai stati lasciati indietro. E’ un punto d’onore per tutti i corpi militari: non abbandonare i propri uomini in difficoltà. “Leave no man behind”come dice lo slogan di un film di guerra americano molto famoso – Black Hawk Down – che racconta i tentativi falliti per recuperare i piloti americani abbattuti a Mogadiscio nel 1993. Ma nel video i tre soldati stanno combattendo da soli e si sa che il quarto ha attivato il rilevatore che permette di rintracciare la sua posizione quando ormai il resto dei mezzi aveva già lasciato l’area. Martedì 13 marzo il capo del comando americano che si occupa delle operazioni in Africa (Africom) dovrà spiegare cosa è successo davanti al Congresso. In un certo senso è fortunato che il video sia uscito prima della sua deposizione, perché altrimenti avrebbe potuto essere smentito in modo clamoroso. Alla fine di gennaio si sparge la voce. Il video è in vendita, ci sono offerenti che lo offrono anche per cinquemila dollari ma alla fine è probabile che si siano fatti pagare di più. Ne esistono due versioni, una è più lunga di un minuto, entrambe sono di qualità molto bassa, sgranata. Di certo una copia è già in mano a Mohammed Abul Mali, un giornalista di Nouakchott in Mauritania che da sempre è il più informato su quello che fanno i gruppi estremisti nell’area. Il New York Times compra il video in esclusiva. Quattro giorni dopo secondo una fonte del Foglio qualcuno entra nell’ambasciata americana a Niamey, in Niger, e ne vende una copia al governo americano. Lo Stato islamico sta schiumando, teme che qualcuno lo pubblichi prima di loro e faccia svanire l’effetto sorpresa. Un paio di schermate del video finiscono su Twitter, aumentando le attese. Il 17 febbraio il New York Times pubblica un pezzo informato che si basa sul video ma non lo fa vedere.

Prima o poi, temono i terroristi, qualcuno lo farà. In realtà il dipartimento media del gruppo terrorista è già riuscito a mettere le mani su una copia del video, ma ha un problema: gli africani hanno messo come colonna sonora un inno islamico che copre le urla dei soldati americani presi in trappola. Loro cercano l’altra copia – perché non sanno che è praticamente uguale – e anche i filmati originali in alta definizione e con la traccia audio intatta. Non vogliono usare la copia che hanno già a disposizione perché sperano di confezionare un capolavoro 2018 della loro propaganda, potrebbe essere persino il finale di Salil al sawarim capitolo cinque. I quattro video etichettati Salil al sawarim, che in arabo vuol dire “il clangore delle spade”, sono la serie più di successo mai prodotta dallo Stato islamico, il quarto episodio nel 2014 ha battuto il record di visualizzazioni su internet (nell’ordine dei milioni), i giornali se ne sono accorti e hanno scritto articoli. Continuano a tempestare di richieste il giornalista di Nouakchott, gli scrivono su Facebook ma lui non apre i messaggi. Fanno circolare la voce, come fossero dei fidanzati respinti: qualcuno dica ad Abul Mali di aprire la casella “messaggi da altri” di facebook perché gli abbiamo scritto ma lui non vuole visualizzare. Non sanno che anche il New York Times ha passato settimane per eliminare elettronicamente l’inno islamista che copre l’audio – e sentire cosa dicono i soldati – senza però riuscirci. Dentro lo Stato islamico si rimugina: ancora tre giorni di tentativi e se non si riesce, allora mettere su internet la copia a disposizione prima che lo faccia qualcun altro. E’ facile immaginare che questa ricerca spasmodica sia arrivata alle orecchie delle intelligence che tentano di penetrare la bolla di sicurezza che protegge i resti ancora attivi del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi. Venerdì due marzo un gruppo di al Qaida in Africa, quindi rivale dello Stato islamico, attacca l’ambasciata francese a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Come fosse una risposta tra case di propaganda in competizione, due giorni dopo il video dell’aggua - to agli americani in Niger finisce su internet. Attenzione, senza nessun endorsement ufficiale da parte del gruppo terrorista. Il titolo dice semplicemente che è “l’imboscata dei soldati del Califfato contro gli americani vicino ai confini artificiali tra Niger e Mali”. Il linguaggio è giusto, il riferimento ai “confini artificiali” è un classico dello Stato islamico che considera tutti i confini disegnati dall’uo - mo come un ostacolo temporaneo all’espansione globale del califfato, ma la mancanza di endorsement è strana. A raddoppiare questa sensazione che qualcosa di insolito stia accadendo arriva un avviso ufficiale del gruppo terrorista che invita a ignorare il video e a non farlo girare. Per una volta, è la stessa posizione del Pentagono. Da fuori, è soltanto possibile intuire che il filmato rivela una crisi dello Stato islamico, che ha perso i contatti con i suoi soldati in Niger e che litiga su come usare un pezzo di propaganda che in teoria gli avrebbe fatto comodo.

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