Un lavoro importante e difficilissimo
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Benjamin Netanyahu
Cari amici,
tutti presi dal terremoto delle elezioni italiane i giornali e il pubblico anche attenti a Israele hanno dedicata poca attenzione al viaggio americano di Netanyahu. Un’altra ragione è che oltre al rapporto straordinariamente amichevole con Trump, che lo ha portato alla promessa di venire di persona a inaugurare l’ambasciata Usa a Gerusalemme a maggio, e alle dichiarazioni di fronte alle organizzazioni americane, che rappresentano la comunità ebraica più importante del mondo dopo Israele, non si è saputo granché delle trattative vere che Netanyahu ha svolto a Washington. Alla fine dei colloqui col presidente americano, il primo ministro di Israele ha dichiarato di aver parlato con lui soprattutto di Iran e di Iran ancora ha parlato nei suoi discorsi. La ragione evidente è che l’Iran coi suoi satelliti è oggi il solo pericolo vero per Israele ed è un rischio consistente, anche se non è probabile che una guerra scoppi presto. Lo stesso pericolo è percepito con allarme dal mondo arabo sunnita e in particolare da Arabia e Egitto.
Si tratta dunque di capire come contenere il potere dittatoriale, aggressivo e imperialistico degli ayatollah, che è stato ingigantito dalla sciagurata politica di appeasement condotta da Obama e ancora appoggiata dall’Unione Europea. E’ possibile bloccare l’armamento missilistico e fra pochi anni nucleare dell’Iran? Si può rivedere il trattato che blocca questo armamento solo in parte e per un tempo limitato (la costruzione diretta della Bomba solo per dieci anni, non l’allestimento dei missili)? Come fare con la Russia che è alleata di Teheran, ma a quanto pare non ne condivide appieno le iniziative? Come bloccare l’avanzata iraniana in Siria, ai confini di Israele e in Yemen, accanto all’Arabia? Come spingere l’Unione Europea ad abbandonare la sua miope politica di appoggio ai suoi nemici? L’America deve rompere il trattato con gli ayatollah o cercare di migliorarlo? Non sappiamo che cosa abbiano concordato Trump e Netanyahu, ma certo si è trattato di una discussione importantissima non solo per Israele ma per il mondo intero, minacciato per colpa di Obama da una guerra devastante in Medio Oriente.
Netanyahu e Trump devono anche aver parlato del nuovo piano di pace americano, di cui si parla con insistenza da qualche settimana: sono uscite delle anticipazioni non certo rassicuranti, la stessa ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, amicissima di Israele, ha detto che esso non era destinato a piacere né a Israele né all’Autorità Palestinese, che peraltro sta usando tutte le sue leve per peggioralo ulteriormente. Avrà ottenuto rassicurazioni Netanyahu? Avrà convinto Trump per esempio che la vecchia idea di un’enclave internazionale a Gerusalemme è inaccettabile per Israele. Prima o poi si saprà, certamente questa parte dell’incontro non sarà stata facile, perché da un lato Trump è il presidente più amico di Israele da decenni, dall’altro le sue scelte sono spesso imprevedibili e talvolta non ne è chiaro il contesto strategico.
Mentre Netanyahu stava svolgendo questa difficile missione, a casa le cose non andavano bene. Non tanto per le indagini di polizia, la cui stessa durata su episodi molto limitati e discutibili ne mostra la scarsa solidità, come del resto il ricorso ad avversari politici come testimoni, che evidenzia l’assenza di prove vere (per capire meglio i limiti e i difetti dell’inchiesta, vi consiglio di leggere quest’analisi molto bella di Caroline Glick, che è tutt’altro che una sostenitrice indiscriminata di Netanyahu: http://www.jewishworldreview.com/0318/glick030518.php3). Ma soprattutto perché i partiti religiosi stanno tentando di approfittare della situazione per spingere l’esenzione degli charedim dal servizio militare, contrastata dalla grande maggioranza dell’elettorato e dalla Corte Suprema, addirittura a principio costituzionale, minacciando di non votare il budget e di provocare un conflitto tale da far cadere il governo e a portare a nuove elezioni (http://www.jpost.com/Israel-News/Netanyahu-Litzman-accuse-each-other-of-instigating-an-election-544391). Insomma, c’è una crisi che non è solo politica, ma ha radici in uno dei grandi conflitti sociali che dividono la società israeliana, quello fra laici maggioritari e charedim in crescita numerica e di assertività.
Non è mai facile fare il mestiere di primo ministro di Israele. Lo stesso Ben Gurion, padre della patria, fu costretto a ritirarsi a un certo punto, lo stesso accadde a Begin e il logoramento delle personalità anche più forti in quel ruolo colpì più o meno tutti. La posizione di Netanyahu oggi è molto difficile e la sua responsabilità altissima, anche perché i suoi aspiranti successori mancano della credibilità e dell’esperienza internazionale sufficiente e, se ottenessero quel che vogliono, certamente dovrebbero passare per un difficile apprendistato. Ma certamente Israele ha le risorse ideali, morali e materiali per continuare a vincere.
Ugo Volli