Intesa Trump-Netanyahu per fermare Teheran Commento di Giordano Stabile
Testata: La Stampa Data: 06 marzo 2018 Pagina: 27 Autore: Giordano Stabile Titolo: «Intesa Trump-Netanyahu per fermare Teheran»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 06/03/2018, a pag.27 con il titolo "Intesa Trump-Netanyahu per fermare Teheran" la cronaca di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Ecco come un giornale serio informa i propri lettori, da paragonare con il pezzo-pettegolezzo di Nigro su Repubblica in altra pagina.
In quella che potrebbe essere la sua ultima visita alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu invita Donald Trump a Gerusalemme, il 14 maggio, a «tagliare il nastro» dell’ambasciata americana trasferita nella Città Santa, come promesso in campagna elettorale. E soprattutto cerca di saldare il fronte anti-Iran con una nuova iniziativa contro il programma missilistico della Repubblica islamica, volta a proibire ogni vettore con una gittata superiore ai 300 chilometri.
Donald Trump con Benjamin Netanyahu
L’intesa fra i due leader, in sintonia ancor prima che Trump venisse eletto presidente degli Stati Uniti, è stata totale, almeno a parole: Iran, Siria, trattative di pace con i palestinesi, che dovranno accettare il «fatto compiuto» di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. La luna di miele però potrebbe finire presto. Il premier israeliano è assediato dalle inchieste giudiziarie. Ieri uno dei suoi stretti collaboratori ha accettato di testimoniare. Il cerchio si stringe. Anche Trump è sotto assedio, con il Russiagate che infuria fin dentro la Casa Bianca.
Poco importa. Ieri era il momento delle celebrazioni. «È la prima volta che ci incontriamo a Washington dopo la decisione su Gerusalemme», ha esordito Netanyahu. Trump ha replicato di essere «molto orgoglioso» della scelta «apprezzata in una grande parte del mondo», anche se in realtà finora soltanto il piccolo Guatemala, visitato domenica dal premier israeliano, lo ha seguito. Netanyahu ha parlato poi di decisione che sarà «ricordata nei secoli», come la fine dell’esilio babilonese ai tempi di Ciro il Grande, la dichiarazione di Balfour, o il riconoscimento di Israele da parte di Harry Truman, ottant’anni fa.
A differenza dei tempi di Ciro il Grande, però, il pericolo maggiore ora è l’erede dell’Impero persiano, l’Iran degli ayatollah, la «più grande sfida che dobbiamo affrontare in Medio Oriente». L’Iran «va fermato», ha ribadito Netanyahu, con i toni del discorso alla Conferenza di Monaco, quando ha mostrato al mondo un pezzo del drone iraniano abbattuto sul Golan il 10 febbraio. Iran e Siria sono visti da Israele come un tutt’uno, un fronte unico, ma funzionari della Difesa, citati dal quotidiano Haaretz, hanno fatto trapelare il loro disappunto perché, su Iran e Siria, «non stiamo vedendo nessuna azione concreta da parte dell’America».
Questa è oramai la consapevolezza di tutto l’establishment israeliano. Nonostante i toni duri, le minacce, i discorsi di fuoco «non esiste una politica per contenere Teheran». Vista dallo Stato ebraico la battaglia della Ghouta è soltanto una tappa che avvicinerà l’esercito di Bashar al-Assad e le milizie sciite al Golan e alla frontiera con Israele. Il tempo comincia a scarseggiare. La guerra civile, che doveva mettere in ginocchio il regime, rischia di finire con un Assad militarmente più forte e la Siria trasformata in una testa di ponte dell’Iran sul Mediterraneo.
Per questo Netanyahu, sempre secondo Haaretz, ha presentato a Trump un piano per «contenere» gli ayatollah. Proibire, sotto pena di sanzioni durissime, la produzione di missili con una gittata superiore ai 300 chilometri e costringere i pasdaran a lasciare la Siria, o almeno ad allontanarsi dal confine. Il piano avrà bisogno dell’appoggio europeo ma sui missili, a differenza che sull’accordo nucleare, Bruxelles sembra più disposta ad allinearsi.
Un successo su questo fronte sarebbe anche ossigeno per il Netanyahu politico, mai così in difficoltà. Domani sarà al convegno annuale dell’Aipac, la più importante lobby ebraica in America, a mietere applausi. Ma in patria lo attendono sviluppi preoccupanti. Uno dei più stretti collaboratori, lo «spin doctor» Nir Hefetz, ha accettato di collaborare con i magistrati e di consegnare registrazioni compromettenti per Netanyahu e la moglie Sarah sull’ultimo caso aperto: favori al gigante telefonico Bezeq in cambio di articoli «positivi» sul suo sito Internet, Walla.
L’intesa fra i due leader, in sintonia ancor prima che Trump venisse eletto presidente degli Stati Uniti, è stata totale, almeno a parole: Iran, Siria, trattative di pace con i palestinesi, che dovranno accettare il «fatto compiuto» di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. La luna di miele però potrebbe finire presto. Il premier israeliano è assediato dalle inchieste giudiziarie. Ieri uno dei suoi stretti collaboratori ha accettato di testimoniare. Il cerchio si stringe. Anche Trump è sotto assedio, con il Russiagate che infuria fin dentro la Casa Bianca.Poco importa. Ieri era il momento delle celebrazioni. «È la prima volta che ci incontriamo a Washington dopo la decisione su Gerusalemme», ha esordito Netanyahu. Trump ha replicato di essere «molto orgoglioso» della scelta «apprezzata in una grande parte del mondo», anche se in realtà finora soltanto il piccolo Guatemala, visitato domenica dal premier israeliano, lo ha seguito. Netanyahu ha parlato poi di decisione che sarà «ricordata nei secoli», come la fine dell’esilio babilonese ai tempi di Ciro il Grande, la dichiarazione di Balfour, o il riconoscimento di Israele da parte di Harry Truman, ottant’anni fa. A differenza dei tempi di Ciro il Grande, però, il pericolo maggiore ora è l’erede dell’Impero persiano, l’Iran degli ayatollah, la «più grande sfida che dobbiamo affrontare in Medio Oriente». L’Iran «va fermato», ha ribadito Netanyahu, con i toni del discorso alla Conferenza di Monaco, quando ha mostrato al mondo un pezzo del drone iraniano abbattuto sul Golan il 10 febbraio. Iran e Siria sono visti da Israele come un tutt’uno, un fronte unico, ma funzionari della Difesa, citati dal quotidiano Haaretz, hanno fatto trapelare il loro disappunto perché, su Iran e Siria, «non stiamo vedendo nessuna azione concreta da parte dell’America».Questa è oramai la consapevolezza di tutto l’establishment israeliano. Nonostante i toni duri, le minacce, i discorsi di fuoco «non esiste una politica per contenere Teheran». Vista dallo Stato ebraico la battaglia della Ghouta è soltanto una tappa che avvicinerà l’esercito di Bashar al-Assad e le milizie sciite al Golan e alla frontiera con Israele. Il tempo comincia a scarseggiare. La guerra civile, che doveva mettere in ginocchio il regime, rischia di finire con un Assad militarmente più forte e la Siria trasformata in una testa di ponte dell’Iran sul Mediterraneo.Per questo Netanyahu, sempre secondo Haaretz, ha presentato a Trump un piano per «contenere» gli ayatollah. Proibire, sotto pena di sanzioni durissime, la produzione di missili con una gittata superiore ai 300 chilometri e costringere i pasdaran a lasciare la Siria, o almeno ad allontanarsi dal confine. Il piano avrà bisogno dell’appoggio europeo ma sui missili, a differenza che sull’accordo nucleare, Bruxelles sembra più disposta ad allinearsi.Un successo su questo fronte sarebbe anche ossigeno per il Netanyahu politico, mai così in difficoltà. Domani sarà al convegno annuale dell’Aipac, la più importante lobby ebraica in America, a mietere applausi. Ma in patria lo attendono sviluppi preoccupanti. Uno dei più stretti collaboratori, lo «spin doctor» Nir Hefetz, ha accettato di collaborare con i magistrati e di consegnare registrazioni compromettenti per Netanyahu e la moglie Sarah sull’ultimo caso aperto: favori al gigante telefonico Bezeq in cambio di articoli «positivi» sul suo sito Internet, Walla.
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