Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 03/03/2018, a pag.IV con il titolo "Le star di Pallywood" il commento di Giulio Meotti sulle tecniche di diffamazione ontro Israele attraverso anche l'uso delle telecamere, che diventano video diffusi in tutto il mondo. Alla loro realizzazione si dedicano anche Ong israeliane, una tolleranza che dovrebbe cessare.
Giulio Meotti
Alla fine di settembre, Ahed Tamimi era ospite al Parlamento europeo a Bruxelles. Al suo fianco c’era Leila Khaled, la celebre dirottatrice palestinese di aerei di linea, che ha detto al pubblico: “I nazisti sono stati processati a Norimberga per i loro crimini. Oggi Israele sta vivendo nell’impunità”. Poi ha preso la parola Ahed: “Il mondo deve riconoscere la causa palestinese, l’occupazio - ne non è solo il furto della terra, è il sionismo, l’intero sistema di occupazione e non solo gli insediamenti”. Adesso Ahed è in carcere in Israele a diciassette anni, dopo che è stata filmata mentre schiaffeggiava e prendeva a calci e pugni i soldati israeliani che pattugliavano il suo villaggio di Nabi Saleh. E’ scoppiato un caso internazionale. Cosa meglio di una ragazzina che sfida una potenza nucleare? Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan l’ha premiata, i tg sono tutti per lei, gli attori italiani guidati da Asia Argento firmano petizioni per il suo rilascio, Amnesty International si intesta la sua causa, 729 mila voci su Google parlano di lei e il suo volto adorna le fermate dei bus di Londra. La famiglia Tamimi è tutta, ma propria tutta, impegnata nella “resisten - za” a Israele. Figlie, madri, padri, cugine, cugini, zie e zii. La loro casa è il quartier generale dell’“intifada popolare”. Nessuno di loro esce mai di casa senza essere seguito da qualche cameramen palestinese o giornalista occidentale in cerca di scontri e scoop da vendere ai media di tutto il mondo. E’ la più formidabile macchina di propaganda che i palestinesi abbiano a disposizione. Il padre, Bassem, rilascia interviste e Amnesty lo ha riconosciuto come “prigioniero di coscienza”. Intanto la madre, Nariman, è a casa a pubblicare in arabo su Facebook incitamenti all’intifada, e una zia, Ahlam, è ricercata dalla giustizia americana per la strage alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme. Fu la zietta di Ahed, allora giornalista con la cittadinanza giordana, a portare il kamikaze sul luogo dell’attenta - to, che uccise quindici persone, tra cui sette bambini e una donna incinta. Fu la Tamimi a perlustrare e scegliere il ristorante. L’attentatore suicida Izz al Din al Masri Shuheil nascose in una chitarra un ordigno pieno di chiodi, dadi e bulloni, e fece esplodere la bomba nel ristorante all’ora di punta. Un nipote di Bassem, Nizar, era già stato coinvolto nell’omicidio dell’israeliano Haim Mizrahi. Manal, un’altra zia, intanto incita le folle contro il “Vampiro sionista che celebra bevendo sangue palestinese”. Quando un terrorista arabo-israeliano assassinò due israeliani in un pub a Tel Aviv il 1° gennaio 2016, Manal esultò: “Non c’è posto sicuro in cui questi sionisti possano nascondersi”. E’ la grande ambizione della famiglia Tamimi: avviare la Terza intifada. Eppure, i media li ritraggono come una famigliola pacifica che vuole soltanto entrare e uscire dal proprio villaggio senza i controlli israeliani. “Loro (la famiglia Tamimi, ndr) stanno creando le notizie per gli articoli che venderanno al mondo”, ha detto Eliran Malki, un blogger israeliano che per primo ha studiato l’attività della famiglia Tamimi. Un altro membro della famiglia, Bilal, sta lavorando a un film documentario, con Ahed come soggetto principale. Il progetto è finanziato dalla società indipendente Amz Productions, con sede nell’Oregon. Molte delle loro “imprese” sono basate su una serie di menzogne. Questa settimana è stata smascherata un’altra bugia della famiglia Tamimi. Mohammed, quindicenne cugino di Ahed, ha subito un grave trauma cranico a dicembre. La famiglia ha sempre affermato ai giornali che Mohammed è stato colpito alla testa da un proiettile di gomma israeliano e che ha subìto un intervento chirurgico per rimuovere il proiettile, e parte del suo cranio è stato rimosso. Dopo pochi giorni da quell’episodio, Ahed attacca e colpisce i soldati israeliani. “L’ho fatto per mio cugino”, dirà. Chi potrebbe mai biasimarla? Salvo che il capo del Coordinamento delle attività israeliane nei Territori, il generale Yoav Mordechai, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook in arabo la verità sull’incidente, che è stata confermata da Mohammed Tamimi stesso. “Tamimi ha ammesso alla polizia che a dicembre è stato ferito mentre era in sella alla sua bicicletta ed è stato colpito da un manubrio durante la caduta dalla bici”, ha scritto Mordechai. Ahed è la pin-up della propaganda palestinese, il fiore all’occhiello della “resistenza all’occupazione”, paragonata a Rosa Parks, anche se la chiamano anche “Shirley Temper”, Shirley l’irascibile, con riferimento a Shirley Temple . E’ la ragazza fatta apposta per catturare il cuore dei fotoreporter stranieri e dell’opinione pubblica occidentale. Non è velata, come la madre. Al contrario, Ahed ha un tipico aspetto europeo. I fotografi usano lei, la mannequin dell’intifada, e lei usa i fotografi. E’ un affare che conviene a tutti. Ahed agita il pugno contro i militari, li prende a schiaffi, gli morde la mano, capeggia le marce, elogia i kamikaze. “Sceneggiate” che vengono organizzate da manifestanti sempre accompagnati da attivisti stranieri, spesso scandinavi o americani, a beneficio di cineoperatori e fotoreporter compiacenti, finanziati da ong europee antiisraeliane. “Proteste” pensate per il pubblico internazionale delle tv occidentali. Come a Bil’in, su una collina vicino a Ramallah, dove ogni fine settimana sono organizzate proteste contro la barriera di sicurezza. Sono presenti membri delle ong di Stati Uniti, Francia, Irlanda, Norvegia e Germania. I vari attori assumono le proprie posizioni: in primo luogo i giornalisti europei e arabi, come Al Jazeera. Sono i principali attori. Accanto a loro ci sono gli “shabab”, i giovani arabi, e dietro di loro i turisti umanitari che tengono in mano grandi striscioni contro il razzismo ebraico. Una decina di soldati israeliani è appostata su una delle colline vicine. Si inizia lanciando quante più pietre possibile. Non accade nulla. Altre pietre più pesanti vengono scagliate contro i soldati. Nessuna risposta dagli israeliani. Allora gli shabab tirano bombe incendiarie ai soldati. Un soldato risponde con una bomboletta di gas lacrimogeno nell’aria e partono gli “scontri”. Ahed Tamimi è la palestinese più fotografata degli ultimi cinque anni ed è una specialista in questo tipo di manifestazioni. Ha pure avuto l’onore di un saggio accademico su di lei. Il padre intanto va in giro a sostenere che “l’obiettivo degli israeliani, quando arrestano bambini palestinesi, è di rubare i loro organi”. Nabi Saleh, il villaggio dei Tamimi, è la destinazione più popolare per gli attivisti internazionali che vogliono sperimentare da vicino la “resistenza” pa - lestinese. Una sorta di Mecca della militanza antisraeliana. Come spiega Tamar Sternthal della ong Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America, il villaggio di Nebi Salah è dove “i fotoreporter si riuniscono ogni venerdì per filmare scene assolutamente ripetitive, provocate da residenti palestinesi e attivisti internazionali che cercano lo scontro con i soldati israeliani”. E’ il luogo dove “gli attivisti anti-israeliani mettono spesso i loro bambini in pericolo pur di guadagnare punti di propaganda”. Gli scontri con le truppe israeliane sono garantiti durante le proteste settimanali e ci sono sempre fotografi professionisti a cui si può fare affidamento per produrre immagini convincenti dei Davidi palestinesi che sfidano il Golia israeliano. “Se c’è una terza intifada… vogliamo essere quelli che l’hanno iniziata”, ha detto Bassam Tamimi al New York Times. Amnesty International ha chiamato Nabi Saleh “un minuscolo villaggio con una grande voce”. I Tamimi tuttavia non combattono per porre fine all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ma per porre fine all’esi - stenza di Israele come stato ebraico, educano una intera generazione a un intenso antisemitismo e sostengono apertamente il terrorismo. Nel 2005, il professor Richard Landes della Boston University ha prodotto un video di 18 minuti intitolato “Pal - lywood: secondo fonti palestinesi”. E’ la denuncia di una industria cinematografica, in cui le star sono palestinesi, la troupe è fatta di giornalisti e gli sciocchi del pubblico siamo noi. Scene accuratamente ordite dai palestinesi attaccati dalle forze israeliane, che in seguito saranno presentati nelle notizie di tutto il mondo come “filmati amatoriali della povera realtà nei territori palestinesi”. A Pallywood ha preso parte la Unrwa, l’agenzia Onu per i palestinesi, che in una sua campagna di raccolta fondi ha spacciato per una bambina di Gaza una che, in realtà, si trovava sotto le bombe in Siria. E’ rimasto celebre un funerale svoltosi a Jenin nei primissimi giorni della Seconda intifada. Durante uno dei tanti funerali di massa, a causa di una mossa sbagliata dei barellieri, un cadavere palestinese cadde fuori dalla barella, si rialzò e si rimise a correre. Eppure, i media avevano tutti battuto sul tamburo di “Jeningrad”, il massacro che non ci fu. Durante la guerra a Gaza del 2012, la Bbc filmò un gruppo di palestinesi dopo uno strike israeliano. Portavano verso un’ambulanza un ferito che indossava una giacca beige. Pochi minuti dopo, lo stesso uomo camminava, perfettamente sano, a favore della telecamera. Khulood Badawi, una funzionaria dell’Onu con base a Gerusalemme, dove operava come coordinatrice informazione e mass-media, diffuse l’im - magine di una ragazzina palestinese uccisa il giorno prima dagli israeliani a Gaza (“Un’altra bambina uccisa da Israele – scriveva – un altro padre che porta sua figlia al cimitero”). Peccato che fosse un falso. Si trattava di una foto scattata dalla Reuters nel 2006 relativa a una bambina di Gaza vittima di un incidente stradale che non aveva nulla a che a fare con gli attacchi di Israele. Ecco cosa aveva scritto a suo tempo la stessa Reuters: “Caption correction: Gaza, 9 agosto 2006 – Un uomo palestinese porta il corpo di Raja Abu Shaban, 3 anni, inizialmente definita vittima di un raid aereo israeliano su Gaza, in realtà morta in un incidente come ha confermato il giorno dopo il personale sanitario palestinese dell’ospedale Shifa di Gaza”. Si replica nella guerra del 2014. Un rapporto della Bbc mostra che i sostenitori palestinesi hanno usato immagini false per illustrare la situazione a Gaza. L’hashtag #GazaUnderAttack ha ricevuto 375 mila retweet in otto giorni. Ma la rete pubblica inglese ha scoperto che diverse foto, diffuse attraverso i social media per mostrare gli abitanti di Gaza uccisi e la distruzione causata dagli attacchi israeliani, sono state in realtà scattate diversi anni prima, alcune delle quali in Siria e Iraq. In un caso, la foto di un quartiere bombardato è stata pubblicata con la didascalia “Questo è accaduto oggi a Gaza”. Ma l’inchiesta della Bbc ha rilevato che la foto era stata scattata nel 2009. In un altro caso, una foto di bambini sanguinanti è stata pubblicata con la didascalia “Questa non è una questione di religione, è una questione di umanità”. Ma secondo la Bbc, la foto è stata scattata ad Aleppo in Siria e non a Gaza. Un’al - tra foto nello stesso post è stata scattata in Iraq nel 2007. La fotografia di Tuvia Grossman rimarrà negli annali di Pallywood. Tuvia si trovava in un taxi a Gerusalemme, nel settembre del 2000, quando una folla palestinese prese d’assalto la macchina. Il ragazzo sarebbe stato linciato, se la polizia israeliana non avesse risposto all’attacco. La foto dell’inciden - te venne pubblicata dal New York Times, con una didascalia che indicava in Grossman un palestinese, mentre un poliziotto incombeva su di lui. “Un poliziotto israeliano e un palestinese sul Monte del Tempio”, il titolo squillante della vecchia signora del giornalismo. In un video, Israele ha ripreso i palestinesi che fanno saltare in aria un’au - to. Poi arrivano i feriti che si stendono a terra. All’arrivo dell’ambulanza iniziano le riprese. Poi è stata la volta di Mohammed al Dura. Catherine Nay, nota anchorwoman per citarne una, disse che la morte di al Dura prendeva il posto di quella del bambino ebreo con le mani alzate davanti alle SS. Si tratta di un videoclip di 55 secondi, il cui intento è quello di mostrare l’uccisione da parte di Israele di un dodicenne palestinese a un incrocio stradale a Gaza. Il video fu trasmesso dall’emittente tv France 2 il 30 settembre 2000 con un resoconto di Charles Enderlin, uno dei volti più noti del giornalismo francese. Il corpo disteso di Mohammed al Dura campeggia sugli schermi televisivi durante le teleprediche islamiche contro gli ebrei e si trova persino su un francobollo egiziano. Il giornale inglese The Independent scrisse: “Questa immagine angoscerà il mondo”. Fu una messinscena. Successive inchieste avrebbero dimostrato che il palestinese non era stato ucciso dai soldati israeliani. Poi sarebbero venute le immagini photoshopped dell’Associated Press di un bombardamento ripreso in diversi posti a Beirut durante la Guerra del Libano del 2006. Senza dimenticare le foto del conflitto di Gaza del 2009, riutilizzate mesi più tardi dal Telegraph, per mostrare la vita quotidiana lì. E si arriva alle fotografie della Reuters da cui sono “scomparsi” i pugnali dei terroristi nel corso dell’incidente sulla Mavi Marmara. Nel primo scatto, pubblicato sul quotidiano turco Hurryet, si vede un coltello in mano a una persona. Nella seconda immagine, rilanciata dalla Reuters, il coltello non compare. E la barriera di sicurezza di Israele, che ha fermato un’ondata di attentati costati la vita a 1.500 israeliani, è oggi fotografata più di qualsiasi star di Hollywood, ma solo nel cinque per cento di sezioni di cemento coperte di graffiti che la paragonano al Ghetto di Varsavia. Durante la Terza intifada, Ahmed Mansra, tredici anni, armato di coltello, a Gerusalemme colpisce un uomo e un bambino. I media rilanciano subito la versione palestinese: “Executed”. Ahmed sarebbe stato giustiziato dalle forze israeliane. Peccato che il giovanissimo terrorista palestinese fosse vivo e ben curato dai medici israeliani nell’ospedale Hadassa, a Gerusalemme. A Pallywood possono capitare anche i miracoli. Ancora non avranno ottenuto lo stato che sognano e cui aspirano, ma i palestinesi stanno riuscendo a costruire il più grande set cinematografico politico. I giornalisti amano le storie succose e accettano qualsiasi filmato di un bambino palestinese attaccato da un “feroce” soldato israeliano. Pace e pragmatismo? No grazie! Dateci sangue, pietre, lacrimogeni, il primo piano di una donna che urla e di sua figlia che prende a pugni i soldati. Meglio ancora se bionda.
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