Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano di febbraio 2018, a pag. 8, con il titolo "Guardarsi con gli occhi del nemico. Ebrei contro Israele e contro se stessi", l'analisi di Nathan Greppi.
Nel marzo 2012 venne distribuito un film basato sul diario di Vittorio Arrigoni, l’attivista filopalestinese ucciso a Gaza l’anno prima dai salafiti, in cui 19 intellettuali e attivisti leggevano ciascuno un capitolo del libro; l’aspetto singolare non è il film in se stesso (guardare e ascoltare persone che leggono per tre ore e un quarto, sfiancherebbe anche il filopalestinese più radicale), quanto il fatto che su 19 interpreti ben 8 siano ebrei, di cui 3 israeliani. All’interno del mondo ebraico è sempre esistita una componente, più o meno grande a seconda dei tempi e dei luoghi, che nega a Israele il diritto di esistere. Perché? Come nasce questa posizione e di cosa si nutre? E soprattutto, che forme ha assunto oggi rispetto al passato? Vediamo le origini storiche. Innanzitutto occorre ricordare che, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, coloro che seguivano le idee di Theodor Herzl erano una minoranza all’interno del mondo ebraico; infatti, prima di allora, in Europa (specie quella occidentale) prevaleva l’idea che gli ebrei dovessero integrarsi nei Paesi d’origine, e prima ancora che gli ebrei dovessero sentirsi italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Tuttavia, tra fine ‘800 e i primi del ‘900, scegliendo di assimilarsi, alcuni di loro arrivarono a distanziarsi dalle loro radici ebraiche, che vedevano come un ostacolo all’ingresso nella buona società, nel mondo professionale e politico. Tra questi vi erano, ad esempio, intellettuali come Marcel Proust e Stefan Zweig. Nel 1897, durante il Primo Congresso Sionista, il giornalista Max Nordau aveva riassunto la questione con queste parole: “L’ebreo emancipato dell’Europa Occidentale ha abbandonato il suo carattere specificamente ebraico, eppure le nazioni non lo accettano come parte delle loro comunità nazionali. Egli abbandona i suoi compagni ebrei, perché l’antisemitismo ha insegnato anche a lui a disprezzarli, ma i suoi compatrioti gentili lo respingono quando prova a legarsi a loro”. «Una cosa va chiarita. L’affermarsi del sionismo, come espressione politica e culturale dell’ebraismo, tra Ottocento e Novecento, incontrò non pochi ostacoli e diversi problemi», spiega lo storico Claudio Vercelli. L’antisionismo ebraico seguì fin da subito percorsi ben precisi: «Il primo di essi era quello religioso: per una parte degli osservanti la nascita di uno Stato Ebraico contravveniva ai dettami dei Testi Sacri. La rilevanza di questo approccio, a tutt’oggi presente in alcune enclaves della società religiosa israeliana, non va enfatizzata ma neanche sottovalutata». Un’altra forma di antisionismo, secondo Vercelli, «sicuramente significativo almeno fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, fu quello di matrice liberale. Si tratta soprattutto di quell’ebraismo che aveva tratto, dalle rivoluzioni borghesi a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, grandi opportunità di consolidamento culturale, di riconoscimento civile e morale e infine di parificazione nelle società nazionali non ebraiche. Per questi ebrei, l’ipotesi sionista costituiva non solo una discutibile utopia ma anche un potenziale rischio, di contro ai propri percorsi di emancipazione e di integrazione nei rispettivi Paesi di appartenenza».
Dopo il 1948, e soprattutto dopo il 1967, invece, l’antisionismo ebraico si è edificato sul modo in cui il conflitto tra Israele e i palestinesi veniva vissuto, interpretato e visto da una certa Sinistra: negli anni Ottanta, ad esempio, dopo i massacri di Sabra e Chatila la scrittrice Natalia Ginzburg pubblicò sull’Unità numerosi editoriali contro le politiche israeliane. Ma per meglio capire la diffusione dell’odio anti-israeliano in seno ad alcune frange dello stesso ebraismo odierno, non si può non gettare uno sguardo agli Stati Uniti, specie negli ultimi tempi. Qui, in anni recenti, è cresciuto un movimento ebraico antisraeliano noto come Jewish Voice for Peace (JVP) che, nonostante il nome, si è fatto notare per posizioni tutt’altro che pacifiche: il 2 aprile 2017, ad esempio, ha ospitato a un suo evento la terrorista Rasmea Odeh, che nel 1969 uccise due studenti universitari a Gerusalemme, mentre nel luglio, sempre del 2017, ha esultato, sulla sua pagina Facebook, dopo che l’Unesco ha negato le radici ebraiche di Hebron. Un gruppo molto estremista, ma che purtroppo gode dell’appoggio di celebri intellettuali ebrei quali Noam Chomsky, Judith Butler e Naomi Klein. Per loro, Israele sarebbe un’entità colonialista da cui chiunque sia davvero di sinistra deve prendere le distanze. Secondo il docente di semiologia Ugo Volli, «è un dato di fatto che negli States vi sia una parte consistente che si distanzia da Israele. È la parte che si richiama politicamente al Partito Democratico e, religiosamente ai Reform e ai Conservative. Già prima del 1948, una fetta consistente era contraria alla nascita dello Stato d’Israele, nel tentativo di proporsi soprattutto come una religione e non come un Popolo. Ma le posizioni sono molto sfumate; quelli che dicono senza mezzi termini di essere contro l’esistenza dello Stato d’Israele sono pochi, ma è largamente maggioritaria l’idea che Israele si debba ritirare dietro la Linea Verde, e che l’America dovrebbe costringere Israele a farlo». Lo chiamano Tough Love, amore severo e non “sdilinquito” verso Israele. Per quanto riguarda la situazione nel nostro Paese, Volli afferma che «in Italia, a parte posizioni isolate, la grande maggioranza della Comunità ebraica è legata a Israele sia perché ci andiamo spesso, sia perché ci sentiamo più minacciati e vediamo in Israele un rifugio». Secondo un sondaggio del Pew Research Center, l’89% degli ebrei americani dai 18 ai 29 anni ha a cuore le sorti di Israele. Gli antisionisti più intransigenti sono un’esigua minoranza, che però “riceve molta pubblicità poiché il BDS, che non vuole sembrare antisemita, li coinvolge di continuo», dichiara a BET MagazineBollettino Cary Nelson, docente di inglese all’Università dell’Illinois e autore di diversi saggi sull’odio antisraeliano negli atenei americani. «Fa male vedere degli ebrei andare in quella direzione. Negli Stati Uniti sono centinaia, e il movimento sta crescendo a causa dello stallo del processo di pace. Ci sono sia vecchi che giovani, ma soprattutto questi ultimi, che ricevono pressioni dai loro amici, convinti di stare facendo la cosa giusta». Ma anche in Israele non mancano casi analoghi, seppur isolati: oltre all’antisionismo religioso, diffuso soprattutto tra alcuni gruppi chassidici, vi sono anche diversi intellettuali legati alla sinistra radicale (Ilan Pappé, Amira Hass, Gideon Levy) che osteggiano l’idea di uno Stato ebraico e sostengono la creazione di uno Stato bi-nazionale per arabi ed ebrei, opposto alla soluzione dei due Stati. Fortunatamente, spiega Volli, in Italia gli ebrei hanno un legame molto più saldo con Israele rispetto a quelli americani. Tuttavia, anche qui non mancano coloro che prendono posizioni diverse, come l’attore e drammaturgo Moni Ovadia, che ha più volte preso pubblicamente posizione anche a favore dei boicottaggi, di cui l’ultima contro la partenza da Gerusalemme del Giro d’Italia.
L’unica associazione ebraica antisraeliana in Italia è la Rete Ebrei contro l’Occupazione, il cui plauso e consenso non è tuttavia minimamente paragonabile a quello del JVP. Ma allora, quand’è che la critica legittima alle politiche israeliane e alle decisioni dei suoi governanti diventa puro antisionismo? Qual è il punto di frizione, la faglia di frattura tra le due masse tettoniche, ossia la propria appartenenza al popolo ebraico e l’esistenza dello Stato di Israele? Quando si passa dalla critica al rifiuto per lo Stato ebraico e infine all’odio per le proprie origini? Ha provato a rispondere il giornalista de Il Foglio Giulio Meotti, autore nel 2014 del saggio Ebrei contro Israele (Lindau): secondo lui un ruolo chiave lo avrebbe giocato il post-colonialismo e il senso di colpa dell’Occidente per le sorti attuali e disastrate del Terzo Mondo, esito delle razzie coloniali del passato: «Registriamo un doppio binario: da un lato vi è un relativismo culturale che mette tutte le culture che sono state vessate sullo stesso piano, facendo di tutta un’erba un fascio (palestinesi, ruandesi, etiopi, eritrei, ceceni...), un pentitismo e un senso di colpa che genera emozioni forti in molti ambienti, anche in quelli ebraici. Specie nelle dichiarazioni di tanti intellettuali ebrei, i quali rivendicano quasi una superiorità intellettuale dell’ebraismo diasporico rispetto a quello israeliano». Tuttavia, Meotti aggiunge che è essenziale fare una distinzione tra quelli che sono contro l’esistenza dello stato (Chomsky, Pappé) e chi critica Israele ma in buona fede (ad esempio, Amos Oz e David Grossman): «C’è una parte che partecipa attivamente a campagne contro Israele, e un’altra che attacca i Territori, ma è leale al proprio Paese. Occorre capire che spesso, purtroppo, viene strumentalizzato anche il secondo gruppo, quello più “morbido”; Oz e Grossman, e altri che la pensano come loro, partono da nobili intenzioni ma sarebbe bene che marcassero il territorio». Ma oltre ai casi sopra citati, esiste anche quello che a volte viene definito “ebreo che odia se stesso”, termine coniato dal filosofo tedesco Theodor Lessing nel 1930: uno dei casi più famosi è quello del neonazista americano Daniel Burros, che nel ’65 si suicidò dopo che un articolo del New York Times aveva rivelato le sue origini ebraiche (la sua storia ha ispirato il film del 2001 The Believer). Ugualmente noto, negli anni Settanta, fu il caso dell’allora cancelliere austriaco Bruno Kreisky, il quale arrivò a dire che “se gli ebrei sono un popolo, allora sono un brutto popolo”. Non a caso, in Israele è stato coniato il termine “Sindrome di Kreisky” per indicare gli ebrei antisraeliani e antisemiti. Tuttavia, oggi esistono casi di ebrei che esibiscono apertamente l’odio di sé, facendone quasi un vanto: il musicista israelo-britannico Gilad Atzmon, ad esempio, in passato ha affermato che «bruciare sinagoghe è un atto razionale», e che «l’ideologia ebraica sta conducendo il nostro pianeta verso la catastrofe». Altrettanto scandalo hanno suscitato le dichiarazioni del giornalista svedese Israel Shamir, nato in Russia da genitori ebrei ma convertitosi al cristianesimo, il quale ha scritto sul suo sito che gli ebrei «dominano i cuori e le menti degli europei». Il discorso che forse ha reso oggi più giustizia a questo dibattito lo ha scritto Rav Jonathan Sacks nel novembre 1997, sul mensile americano First Things: «Nel 1897, gli ebrei ortodossi credevano che i Reform sarebbero presto scomparsi e che sarebbero stati solo una fermata secondaria lungo la strada di una totale assimilazione del mondo ebraico laico e secolarizzato. Dal canto loro, gli ebrei riformati credevano che l’ortodossia sarebbe scomparsa: dal loro punto di vista, era totalmente incoerente con il mondo moderno. Anche i sionisti, a loro volta, credevano che la diaspora sarebbe sparita, visto che era ugualmente minacciata dalla seduzione dei Paesi e delle culture autoctone, dall’assimilazione e dall’antisemitismo. I non-sionisti credevano che le speranze di un’indipendenza nazionale ebraica sarebbero scomparse, visto che il compito di resuscitare un impulso rimasto sepolto per diciotto secoli era semplicemente troppo grande. Oggi sappiamo che ognuna di queste previsioni era sbagliata. L’ebraismo riformato esiste ancora. Così come l’ortodossia. Lo Stato d’Israele è nato. La diaspora sopravvive. Ogni opzione della vita ebraica di allora esiste tutt’oggi, e la storia non ha ancora emesso il suo verdetto su nessuna di esse».
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