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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.02.2018 Siria,Turchia,Russia: massacri a cielo aperto
Cronache e commenti di Giordano Stabile,Lorenzo Cremonesi

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Giordano Stabile-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Erdogan vuole il Nord della Siria, la battaglia di Afrin è solo l'inizio-L'attacco Usa, 100 morti, la guerra ombra vista dal fronte»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/02/2018, a pag.8, con il titolo " Erdogan vuole il Nord della Siria, la battaglia di Afrin è solo l'inizio " il servizio di Giordano Stabile. Dal CORRIERE della SERA, a pag.15, il reportage a pag.15 di Lorenzo Cremonesi dal titolo "L'attacco Usa, 100 morti, la guerra ombra vista dal fronte "

La Stampa-Giordano Stabile:" Erdogan vuole il Nord della Siria, la battaglia di Afrin è solo l'inizio "

Che ci sta ancora a fare nella NATO la Turchia? Il rapporto con gli Usa è più che logorato, e chi paga il conto sono i kurdi, abbandonati di fatto dall'America. Trump dovrebbe imitare Netanyahu, occuparsi direttamente di politica estera, invece di affidarsi a mezze calze privi di esperienza e quindi pessimi consiglieri.

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Giordano Stabile

Quando la battaglia della Ghouta, in un modo o nell’altro, sarà finita, in Siria comincerà una guerra molto diversa, quella delle frontiere. I ribelli anti-Assad sostenuti dalla Turchia si stanno già preparando. I sogni «rivoluzionari» sono sepolti da un pezzo. Sanno di essere pedine di un gioco più grande, fra le potenze regionali e mondiali. E come tali si devono muovere. Nello spicchio nord-occidentale della Siria il gioco è condotto da Ankara. La battaglia attorno ad Afrin è l’aspetto visibile, dietro lo schermo della frontiera i preparativi vanno verso la creazione una zona cuscinetto più profonda, con due punti critici: le città di Idlib e Manbij, i veri obiettivi strategici. I dettagli filtrano nelle retrovie in Turchia, a partire dalla provincia di Hatay, attraverso i contatti fra i siriani rifugiati e i combattenti in Siria. La dirigenza turca è convinta che Bashar al-Assad, una volta eliminate le sacche interne, la Ghouta e poco altro, andrà davvero all’assalto verso le frontiere per recuperare «ogni centimetro quadrato di territorio». L’offensiva, salvo sviluppi imprevisti, scatterà alla fine della primavera. Mosca è prudente, cerca l’equilibro, ma l’ala oltranzista del regime iraniano spinge in questa direzione. Lo si è visto ad Afrin, dove le milizie sciite hanno convinto il raiss a schierarsi con i curdi dello Ypg, e costretto i russi ad adeguarsi. La contromossa di Ankara è di mettere in sicurezza la sua zona cuscinetto. Ci sarà ancora un’azione diplomatica, con pressioni sui russi, ma soprattutto azioni militari. Fonti sul terreno confermano. I turchi sono presenti con truppe speciali e reparti corazzati a Bulbol, Azaz, Marea, attorno ad Afrin; a Jarabulus, Al-Bab, Qabasin, attorno a Manbji; e a Sarabiq, Marraat al-Numan, Khan Sheikhoun, con posti di osservazione e piccole basi avanzate, attorno a Idlib. Sono tre manovre avvolgenti. Una è «calda», verso ad Afrin. Le altre sono destinate a scattare. Il punto più critico è Manbij. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan l’ha citata decine di volte nei suoi discorsi per preparare l’opinione pubblica. Ancora venerdì, con un attacco senza precedenti agli Stati Uniti, accusati di «mentire sempre», perché non hanno ancora scaricato i loro alleati curdi. Vuole che facciano ritirare i guerriglieri dello Ypg dalla città, strappata all’Isis nell’estate del 2016. Li vuole perlomeno a «Est dell’Eufrate». Il problema è che a Manbji c’è anche una base con militari americani, soltanto un quarantina pare, ma una presenza ingombrante. I ribelli che fanno riferimento al cartello Jaysh al-Khor, l’esercito libero siriano, hanno però ricevuto l’ordine di prepararsi. La popolazione araba nella città, circa l’80%, mostra segni di insofferenza. I servizi sono scadenti, c’è elettricità per poche ore al giorno, il consiglio comunale è dominato dal Pyd, il braccio politico dello Ypg. «Se ci dovessero esserci attacchi contro i curdi la situazione per gli americani diventerebbe insostenibile», è la tesi. A quel punto il piccolo contingente sarebbe costretto a ripiegare a Est dell’Eufrate, e i combattenti curdi, fra «i 300 e i 600 al massimo», sarebbero soverchiati da ribelli, commando turchi e cellule in sonno nella città. L’aspetto politico è più problematico. Ma Erdogan sembra sia convinto che alla fine gli americani molleranno i curdi. Per una ragione. La crescente influenza iraniana. In fondo, fanno notare le fonti, i curdi sono una popolazione di ceppo iranico, Teheran ha già riallacciato i rapporti con i curdi iracheni. Gli ayatollah sognano di portare l’intero mondo curdo dalla parte dell’asse «della resistenza». E poi l’ideologia dello Ypg è socialista e anti-americana, l’alleanza con il Pentagono è vista come «opportunistica, contro natura». Il dramma di Goutha Intanto nelle provincia di Goutha infuriano le bombe di Assad: il grande sobborgo a est della capitale in mano ai ribelli ha contato oltre 500 morti. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dopo giorni di trattative ha chiesto una tregua di 30 giorni per ragioni umanitarie. Decisivo il via libera della Russia, che per giorni aveva minacciato il veto sulla risoluzione. Il fronte di Idlib A Idlib Ankara deve sbarazzarsi prima di tutto dell’Al-Qaeda siriana che ora opera sotto la sigla Hayyat al-Tahrir al-Sham. Per farlo ha creato una nuova formazione ribelle, nata dalla fusione di due gruppi, jihadisti pure loro ma nemici di Al-Qaeda: Ahrar al-Sham e Al-Zinki. Dovranno fornire la fanteria, appoggiata da forze speciali turche, per prendere la città, dove fra rifugiati e gente locale ci sarebbero un milione di persone. Anche qui la situazione è disastrosa, «c’è elettricità al massimo per due ore al giorno e non c’è più acqua potabile». Se anche Erdogan si prenderà il suo spicchio di Siria, sarà una distesa di rovine e miseria.

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " L'attacco Usa, 100 morti, la guerra ombra vista dal fronte "

Fino a quando i russi sopporteranno ancora di morire per la magalomania zarista di Putin? In un regime democratico sarebbero in gioco la prossime elezioni, ma Putin non le teme, da vecchio esperto KGB sa come i risultati possono essere manovrati. Intanto il Medio Oriente è una macelleria a cielo aperto. Ci sarà qualche leader occidentale a chiedersi se non sia il caso di dare una mano a Israele a difendersi dagli stati terroristi che la minacciano?

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Lorenzo Cremonesi

L'attacco americano è cominciato con precisione micidiale verso le dieci della sera del 7 febbraio ed è durato quasi ininterrottamente sino all'alba del giorno dopo. Una pioggia di missili e bombe lanciate da jet e droni che non ha lasciato scampo ai soldati di Bashar Assad assieme ai loro alleati russi e alle milizie sciite, tra cui diversi gruppi scelti dell'Hezbollah libanese. Pare che qualcuno tra loro con le prime luci del nuovo giorno abbia provato a sventolare bandiera bianca dal terreno sconvolto dalle esplosioni, i mezzi in fiamme (tra cui una ventina di carri armati) e i resti dei cadaveri scomposti. Ma la zona che abbiamo visto anche noi da lontano è caratterizzata da grandi colline di terra sabbiosa, qualche fattoria isolata e campi coltivati delimitati da spazi alberati che declinano dolcemente sino alle rive dell'Eufrate, qui già largo e maestoso. La visuale è difficile. «Sapevamo che gli americani avrebbero attaccato. Erano settimane che parlavamo con i loro comandi. Il piano era stato architettato a dicembre, quando le truppe pro-Damasco hanno attraversato l'Eufrate sul ponte di Deir ez-Zor da sud verso nord attestandosi nell'area del villaggio di Salahia, larga 15 chilometri e profonda 3. Una chiara violazione delle intese non scritte tra noi e loro: nessuno avrebbe dovuto oltrepassare il fiume per invadere il campo degli altri. Ma hanno approfittato del fatto che eravamo occupati a combattere con quel che resta dei militanti di Isis, che scappano verso la nostra sponda perché noi facciamo prigionieri e i filo-Bashar no. La cosa che ci ha colpito è stato scoprire l'alto numero di russi tra i cadaveri. Non li abbiamo ancora raccolti tutti. Valutiamo siano tra i 100 e 150 su circa 300 morti. Gli altri sono per lo più Hezbollah», ci racconta Polat Jan, che è un alto responsabile dello Ypg (le forze militari curde siriane) comandante per il settore di Deir ez-Zor. Ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha ammesso che «diverse decine» di russi sono stati feriti in combattimento. Così, in circa tre ore di intervista, questo ufficiale 37enne originario di Kobane fornisce dettagli inediti di quello che la stampa americana ha platealmente bollato come «lo scontro militare più grave tra Stati Uniti e Russia dalla fine della Guerra fredda» e probabilmente dai tempi del conflitto in Vietnam. Per raggiungerlo abbiamo percorso circa 350 chilometri da Kobane, attraverso Raqqa (l'ex capitale di Isis) e sino a questa zona, dove soprattutto curdi e americani stanno cercando di cancellare una volta per tutte le ultime province del «Califfato». Il suo racconto è in armonia con le ricostruzioni che sia il Washington Post che il New Yorker hanno proposto di recente. «Non ci è chiaro quanti russi tra i caduti siano mercenari contractor della compagnia privata Wagner di Mosca, oppure soldati regolari. Certo è che hanno uniformi simili e le stesse armi, meno sofisticate di quelle degli americani, ma certamente ottime per i livelli delle forze locali», dice l'ufficiale. È però chiaro cosa volessero ottenere: impadronirsi della grande raffineria «Conto», gli oleodotti vicini e posizionarsi per prendere i maggiori pozzi petroliferi e di gas di tutta la Siria che da sempre sono la ricchezza di Deir ez-Zor. «Erano arrivati a 300 metri dalla Coneco. Noi curdi avevamo perso quattro posizioni nelle ore appena precedenti l'attacco americano». Al Pentagono chiariscono ufficiosamente che il blitz è avvenuto nel quadro di una strategia sia Usa che russa di «tastare» l'avversario. «I russi passando il fiume miravano a capire quanto noi fossimo disposti a sostenere i curdi. II nostro attacco poteva essere anche di minore intensità e avrebbe sortito il medesimo risultato di costringere le colonne in avanzata a ritirarsi. Ma era importante lanciare un segnale forte», spiegano i comandi Usa alla tv Nbc. Al momento tutte le infrastrutture energetiche della zona sono bloccate. Isis le ha danneggiate l'estate scorsa, dopo che gli era diventato impossibile utilizzarle. Ma la compagnia nazionale petrolifera siriana ne avrebbe già promesso una parte dei proventi a Yevgeny Prigozhin, quello stesso oligarca russo dai trascorsi criminali oggi accusato negli Stati Uniti di avere interferito nella campagna elettorale americana del 2016 con la «guerra delle false informazioni» e soprattutto proprietario della «Wagner». Circa 3.000 suoi mercenari sarebbero ormai da tempo impegnati in Siria con stipendi mensili sui 3.000 dollari, molto simili a quelli che paga ai suoi in Ucraina e in Africa. Un impegno cresciuto col tempo. Putin sa bene che dopo il disastro afghano degli anni Ottanta, dove l'esercito russo perse migliaia di uomini e la campagna sanguinosa in Cecenia, la sua opinione pubblica è poco propensa ad accettare le avventure militari all'estero. Da qui il suo plauso all'attività di Prigozhin, esperto nel reclutare ultranazionalisti e veterani dei corpi speciali. Nel 2015 vennero inviati a rafforzare la guardia alle basi aeree e della marina russa nelle zone di Tartus e Latakia. Ma poi nel 2016 e 2017 sono stati in prima linea nella battaglia di Palmira. Le pattuglie dello Ypg li hanno visti stazionare attorno alla loro enclave di Afrin, prima che Putin ne ordinasse il ritiro quando i120 gennaio la Turchia ha lanciato l'offensiva militare in chiave anti-curda. «A noi è sembrato assurdo che i russi abbiano deciso di attraversare l'Eufrate. Un vero suicidio per chi conosceva il terreno e le regole che ci eravamo dati. Ci è parso ovvio che gli ordini arrivassero da Mosca. A nostro avviso, il massacro dei russi resta un episodio centrale del braccio di ferro tra Mosca e Washington in Siria».

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