Stato Islamico: chi vuole un nuovo Califfo del terrore? Cronaca di Francesco Semprini
Testata: La Stampa Data: 11 febbraio 2018 Pagina: 8 Autore: Francesco Semprini Titolo: «I dubbi Usa sui prigionieri dell’Isis: 'Non vogliamo un altro Al Baghdadi'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/02/2018, a pag. 8, con il titolo "I dubbi Usa sui prigionieri dell’Isis: 'Non vogliamo un altro Al Baghdadi' " la cronaca di Francesco Semprini.
Francesco Semprini
E se dalle carceri in Siria muovesse i primi passi il prossimo califfo? È questo l’interrogativo che tiene in ostaggio l’amministrazione di Donald Trump e ne condiziona le scelte operative ad ovest dell’Eufrate. Ad est, tra Raqqa e Deir Azzur, area di imprescindibile importanza per gli Usa, gli americani si prodigano in difesa degli alleati delle Forze democratiche della Siria, mentre ad ovest, tra Afrin e Manbij, zona meno strategica per Washington, appaiono più prudenti, anche dinanzi all’avanzata dei carri armati turchi verso le enclave degli amici curdi. Un modo di mantenere potere negoziale con gli alleati in Siria - suggeriscono alcune fonti - sullo spinoso problema dei prigionieri dello Stato islamico e delle proprie famiglie. Tra loro tantissimi volontari della jihad provenienti da 30 Paesi: mentre la Russia vuole rimpatriare i connazionali prigionieri (in particolare ceceni) che hanno combattuto sotto le bandiere nere, i Paesi europei sono invece riluttanti.
Abu Bakr Al Baghdadi
Questo solleva timori al Pentagono, dove gli strateghi temono il ripetersi di quanto accaduto in Iraq. Ovvero che le prigioni dei jihadisti possano diventare incubatrici della nuova generazione terroristica. Come avvenuto a Camp Bucca, la struttura detentiva Usa al confine col Kuwait nella quale si sono radicalizzati i futuri leader dell’Isis, a partire da Abu Bakr al-Baghdadi. E con un’aggravante: rispetto alle prigioni in Iraq, quelle in Siria rientrano in una zona grigia dal punto di vista giurisdizionale, visto che si trovano in territorio siriano ma a controllo curdo, il quale però non gode di un riconoscimento internazionale organico. Sebbene Trump sostenga che i terroristi dell’Isis e delle altre formazioni radicali debbano essere giudicati da tribunali militari, e l’amministrazione Usa abbia schierato task force per aiutare gli alleati curdi, l’atteggiamento degli americani - come spiega il New York Times - appare quello di volersene lavare le mani, specie per le implicazioni umanitarie e di sicurezza relative alla gestione dei detenuti. In questo quadro arriva la denuncia del Syrian Observatory for Human Rights (Sohr), secondo cui 400 miliziani Isis sarebbero già stati rilasciati dalle forze curde. Mentre altri 120 sarebbero stati integrati nei ranghi delle Forze democratiche della Siria che combattono ad Est dell’Eufrate. A ciò si aggiunge la denuncia del generale russo Valery Gerasimov secondo cui gli americani starebbero addestrando miliziani estremisti ed ex bandiere nere confluiti dopo la caduta di Raqqa nella fantomatica formazione dei New Syrian Army. Washington smentisce categoricamente ma a sostegno dell’accusa - spiega il generale - ci sono le immagini dei satelliti che avrebbero individuato i «contingenti terroristici» nei pressi delle basi americani di Tanf e Shadadi.
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