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Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/02/2018, a pag. 1 con il titolo "Di Maio europeista" l'analisi di Daniele Raineri.
Roma. Ieri mattina Luigi Di Maio è andato alla Link University, un campus privato di Roma ovest, per parlare del suo programma di politica estera. La coreografia era molto controllata e attenta a evitare qualsiasi domanda: nessun contatto con i giornalisti – citati soltanto come trofeo, “ci sono anche giornalisti internazionali!” – e nessuna possibilità per il pubblico di chiedere qualcosa al candidato. Le uniche domande previste nell’incontro sono state poste da sei studenti stranieri del campus e lette su fogliettini di carta già preparati e scritti in italiano. La Link è un posto molto accogliente per Di Maio, tre professori sono candidati alle elezioni con lui e gli sorridevano in prima fila e i sei studenti con il foglietto della domanda in mano erano sistemati accanto a Rocco Casalino, il suo responsabile della comunicazione. E’ un campus interessante anche per altri motivi, sebbene sia stato aperto di recente: era il luogo di lavoro principale di Joseph Mifsud, il professore maltese accusato dagli investigatori dell’Fbi di avere organizzato i primi contatti tra la Russia e la campagna elettorale di Donald Trump. Il professor Mifsud ha negato le accuse, “Ridicole!”, ma dai primi di novembre è svanito nel nulla e nessuno riesce a rintracciarlo. L’anno scorso si parlava di una possibile partnership della Link con un’università statale di Mosca, la Lomonosov, la faccenda non è andata in porto ma che ci sia qualche relazione con la Russia è evidente – per esempio dal fatto che l’ateneo ha appena istituito un master nel quale cinque professori su sette sono russi. Ma di questo, come di altre cose, nel salone della Link non si è detta una sillaba. Di Maio balzava veloce di argomento in argomento, senza fermarsi su nulla in particolare. L’Italia è una grande realtà economica – “la seconda potenza manifatturiera” – che quindi merita rispetto internazionale, ha detto, e nessuno ha potuto chiedergli perché mai meno di un anno fa ha accusato il governo di avere causato al paese “più danni di una guerra mondiale”. Non eravamo un paese che muore di fame, come da manuale della retorica grillina?
Ma questo è ormai il Di Maio paludato, che si sente già dall’altra parte e sparge elogi su un’Italia che funziona benissimo: il corpo diplomatico della Farnesina (molto ben rappresentato in prima fila) “è eccellente” e le missioni militari italiane nel mondo “sono un modello per gli altri”. L’Unione europea? E’ “la casa naturale dell’Italia e dei Cinque stelle e per questo non ne parlerei come se fosse un tema di politica estera”, dice – e spazza via anni di retorica anti Bruxelles. Anche la “dittatura europea”, così cara alla base grillina e non soltanto alla base, sparisce in questo modo di colpo. Per chi non avesse capito il nuovo afflato europeista moderato, cita Adenauer: “Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma abbiamo diversi orizzonti”. Per risolvere la situazione in Libia, Di Maio spiega che il suo primo gesto sarà convocare a Roma una grande conferenza di pace per formare un governo di unità nazionale – ma, avverte, tenendo sempre in debito conto gli interessi dell’Eni, che “è in Libia dal 1959” (su questo punto devi essere rassicurante, si dev’essere raccomandato qualcuno). Sorvola sul fatto che il problema oggi in Libia è strutturale, Tripoli e Tobruk in teoria potrebbero mettersi d’accordo anche domattina con una telefonata ma non ne hanno nessuna voglia. Sorvola anche, Di Maio, sul fatto che l’attuale governo di Tripoli è nato proprio grazie a una grande conferenza internazionale a Roma nel dicembre 2014, con ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, e sul fatto che uno dei suoi, Angelo Garofalo, voleva organizzare a Roma una conferenza di pace con Khalifa Ghwell, due volte golpista contro il governo di Tripoli. Non l’avranno dimenticato. E dopo la conferenza di di pace? “Ci sarà una politica di cooperazione e sviluppo”. Come per la politica economica, non è dato sapere di più. Tra i tre princìpi cardine della sua politica estera il candidato leader dice che c’è il principio di non ingerenza. Anche in questo caso, non guasterebbe sentire un paio di applicazioni pratiche. Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico, è stata liberata grazie a milizie curde armate dagli americani e grazie ai raid aerei del Pentagono. E’ successo tutto sul territorio di uno stato sovrano, in teoria, la Siria. Non è stata un’ingerenza? E altrimenti come si poteva fare? Si aspettava per altri anni mentre da Raqqa partivano le operazioni terroristiche contro l’Europa? Lo stesso vale per la liberazione di Sirte, città libica in mano allo Stato islamico davanti alle nostre coste. Gli americani l’hanno bombardata con l’autorizzazione del governo libico di Tripoli, che però ieri Di Maio ha definito “non riconosciuto da nessuno”. E quindi bisognava aspettare fino a quando la Libia avesse avuto un governo unitario e non disturbare lo Stato islamico? E come la si mette con la Russia che manda armi e mezzi ai separatisti ucraini e si prende la Crimea, non è un caso d’ingerenza? Però Di Maio si batte per la fine delle sanzioni alla Russia decise proprio come risposta a quei fatti del 2014. Il mondo è molto semplice, se sei al riparo da tutte le domande specifiche. Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@ilfoglio.it |
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