Il conflitto arabo-israeliano secondo Moshe Gat
Analisi di Antonio Donno
La copertina
È indubbio che gli anni tra il 1956 e il 1975 siano stati un periodo cruciale per l’esistenza di Israele, un periodo superato non senza difficoltà, ma con un successo sui suoi nemici che ha lasciato un’eredità fondamentale per l’attuale vita dello Stato ebraico. Gli studi su questo periodo sono innumerevoli, anche se di diversa qualità storiografica. Lasciando da parte i cosiddetti “nuovi storici” israeliani, le cui fortune sono in continua discesa, gli studi dell’ultimo decennio rivestono un’importanza dovuta alla scoperta di nuove fonti documentarie. Per chiudere subito il discorso sui “nuovi storici”, il loro sostanziale fallimento si è rivelato nel tempo grazie alla formidabile solidità della società israeliana, che li ha relegati nel limbo dei propagandisti dell’estrema sinistra, alla documentata dimostrazione della falsità dei loro argomenti e dell’inaffidabilità dei loro studi. Non è tuttavia il caso del recente libro di Moshe Gat, “The Arab-Israeli Conflict, 1956-1975: From Violent Conflict to a Peace Process” (Routledge, 2018), che però presenta un’interpretazione del ventennio in questione discutibile da molti punti di vista. Gat parte giustamente dalla valutazione degli atteggiamenti e comportamenti delle tre potenze interessate al controllo del Medio Oriente, essendo la regione decisiva negli sviluppi della guerra fredda.
Londra, i cui rapporti con Israele erano sempre stati alquanto difficili, temeva che, dopo la guerra di Suez – che aveva visto l’umiliante sconfitta degli anglo-francesi – un’altra guerra tra Egitto e Israele potesse consegnare il mondo arabo definitivamente in mano a Mosca. Tuttavia, non era questa soltanto la preoccupazione della Gran Bretagna. Gat trascura il fatto che all’interno del Gabinetto britannico v’era una forte componente che insisteva perché Londra non abbandonasse la propria influenza nel mondo arabo a favore di Mosca, ma anche di Washington. Quest’ultimo aspetto aveva una certa importanza, perché una parte non marginale del governo e del mondo politico britannico, e non solo conservatore, non gradiva che la tradizionale egemonia di Londra sul mondo arabo venisse soppiantata da quella americana, nonostante l’evidenza del declino globale dell’imperialismo britannico. Posizioni anacronistiche, legate ad antichi rancori, che, tuttavia, continuarono a influenzare negativamente le decisioni di Downing Street. Dal canto suo, a partire dai primi anni ’50, l’Unione Sovietica conobbe un aumento del suo prestigio presso i popoli arabi, e soprattutto dopo il 1956, data che segnò il crollo dell’influenza anglo-francese nell’area, mentre gli Stati Uniti seguivano una politica ambivalente, ma di sostanziale distacco dalle ragioni di Israele, cosa che, tuttavia, non garantiva a Washington di ottenere le simpatie arabe, perché gli Stati Uniti erano associati, nella visione del mondo arabo, all’imperialismo anglo-francese. A questo punto, però, l’analisi di Gat diviene lacunosa, perché la guerra dei sei giorni, grazie alla strabiliante vittoria di Israele, ridette a Washington una centralità nella regione che aveva perso nel periodo tra la fine della guerra e il conflitto arabo-israeliano del 1967. Gat, invece, trascura questo aspetto, che sarà, invece, determinante per la futura posizione americana nell’area mediorientale. In realtà, Johnson era contrario al conflitto, invischiato, com’era, nella guerra del Vietnam, ma Israele aveva bisogno di sgominare un nemico che si preparava ad attaccarlo e agì di conseguenza. Quando la vittoria di Israele fu evidente nella sua ampiezza, gli Stati Uniti trassero dal successo di Gerusalemme un vantaggio politico enorme nella regione, mentre Mosca subiva un declino evidente della sua influenza politica presso il mondo arabo, perché la sconfitta militare araba recava con sé i segni evidenti della sconfitta politica dell’Unione Sovietica, che aveva per quasi un quindicennio foraggiato militarmente e sostenuto politicamente le ragioni degli arabi contro Israele (e, di conseguenza, contro gli Stati Uniti).
Gat minimizza queste conseguenze per soffermarsi, invece, sul distacco egiziano, con Sadat, dalla dipendenza sovietica. Cosa indiscutibile, ma Gat continua, invece, a sottovalutare l’enorme vantaggio politico che Washington aveva conseguito grazie alla vittoria israeliana e, nello stesso tempo, gli effetti positivi che si riversarono sulle relazioni israelo-americane. Tutti questi esiti del 1967 permisero, poi, a Kissinger di manovrare diplomaticamente nella regione con notevole libertà d’azione, cosa che, con ogni evidenza, non avrebbe potuto fare se non ci fosse stata di mezzo la grande vittoria israeliana del 1967. Gat, insomma, trascura molti nessi logici tra gli avvenimenti, mettendo, invece, in rilievo la non-volontà di Israele di trattare con i nemici sconfitti; il che è contrario alla stessa logica di una guerra, dopo la quale sono gli sconfitti a chiedere ai vincitori di sedersi al tavolo delle trattative, mentre Gat sembra accettare la logica perversa che ha caratterizzato tutte le vicende che hanno coinvolto i paesi arabi e Israele dopo ogni conflitto: gli arabi sconfitti hanno preteso di riavere tutto ciò che avevano perso in guerra prima di accondiscendere alla trattativa. Un assurdo. Vi è, poi, un’altra fondamentale considerazione, che Gat tralascia. Israele non fece alcun passo perché non si fidava degli arabi. Nel 1956, infatti, Israele aveva occupato l’intero Sinai, che dovette poi abbandonare a causa della sconfitta anglo-francese e dei successivi trattati tra gli occidentali e Nasser, ma aveva conseguito una vittoria nettissima sull’esercito egiziano schierato nel Sinai. Israele riteneva, erroneamente, che la batosta ricevuta da Nasser nel Sinai lo inducesse a più miti consigli nei confronti dello Stato ebraico. La guerra del 1967 aveva dimostrato, invece, che, nonostante la dura sconfitta nel Sinai del 1956, Nasser, orgoglioso per la vittoria politica ottenuta sugli anglo-americani, riteneva di poter vincere il secondo decisivo round contro Israele e distruggere lo Stato ebraico. A questo punto, Israele non poteva fidarsi degli arabi – cosa, in verità, alquanto nota – e non aveva fatto alcun passo nei confronti dei nemici. E, infatti, l’attacco dell’Egitto, ai tempi di Sadat, nel 1973, confermò pienamente i timori di Israele. Gat afferma, al contrario, che fu la rigidità di Israele, che rifiutò il Piano Rogers, a non permettere una vera distensione tra i contendenti, ma non dà conto del fatto che sia Nixon sia Kissinger erano contrari a quel piano e lasciarono che fosse Israele a rigettarlo. Ma poi v’è un fatto di decisiva importanza. Il 1° settembre 1967 si riunirono a Khartoum i rappresentanti dei paesi arabi, che espressero il triplice no nei confronti di Israele (no al riconoscimento di Israele, no a negoziati con Israele, no alla pace con Israele). Gat ammette questo fatto – e non poteva fare diversamente – ma aggiunge che, nonostante i tre no, “i leader arabi […] non discussero di future azioni militari o di misure intese a portare alla distruzione di Israele”. Secondo Gat, dunque, tutto ciò era sufficiente per affermare la buona volontà araba, essendo i tre no semplicemente uno slogan. Un’altra assurdità, cui fece seguito proprio il contrario di ciò che Gat ritiene la sostanza del summit di Khartoum: il 6 ottobre 1973 l’Egitto e gli altri paesi arabi attaccarono Israele in quella che è stata chiamata la guerra dello Yom Kippur. I fatti stessi, dunque, smentiscono le tesi di Gat. Esse sono fondate sull’elusione di nessi logici che collegano gli eventi. La sua è un’opera che, seppur non fondata sulle falsificazioni dei “nuovi storici” israeliani, è carente nell’analisi ed errata nei giudizi.
Antonio Donno