Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/01/2018, a pag.23 cn il titolo "L'umanesimo ebraico dell'arte di Bruno Zevi" il commento di Elena Loewenthal
Elena Loewenthal Bruno Zevi
Marco Pannella
Al ritratto di Bruno Zevi, magistralmente rievocato da Elena Loewenthal, vogliamo aggiungere un aspetto dell'impegno politico/civile di Bruno Zevi con la militanza nel Partito Radicale di Marco Pannella. Fu sotto la presidenza di Bruno che Pannella scelse Gerusalemme quale luogo per il Congresso del PR, ci sia concesso di sottolineare - perchè c'eravamo- "il partito radicale di Pannella", sotto la sua guida fu il partito più vicino a Israele, una storia che ha avuto termine con le morte del leader radicale. Bruno Zevi, intervistato a Gerusalemme dai giornalisti, che gli chiedevano "perchè Israele?" - era la prima volta che un partito politico sceglieva Israele per il proprio congresso- Bruno rispose " because I care", perchè me ne importa. Mai saremmo andati in Iran o in Cina o in Urss, se non per protestare in difesa dei diritti umani calpestati. Israele, al contrario, è una vera democrazia, per questo venne scelta. Come ci manca, oggi, Marco Pannella. (a.p.)
Potrà sembrare un luogo comune gonfio di retorica, ma è proprio così: non ci sono più gli intellettuali di una volta. Quelli della specie cui apparteneva l’architetto Bruno Zevi, di cui è caduto in questi giorni il centenario dalla nascita. Quella specie che sapeva tenere insieme pensiero alto e cimento con la realtà, che praticava quotidianamente un eclettismo fatto di una curiosità inestinguibile per il mondo, di un impegno costante nella vita, della passione per il proprio mestiere. Complice fors’anche la natura di questo nostro presente sempre più costruito su compartimenti stagni e su quella pigrizia ormai collettiva che ci viene dalla facilità con cui le informazioni vengono a noi appena le chiamiamo, quell’eclettismo così fertile che ha segnato gran parte del Novecento – se si escludono le parentesi degli orrori di guerra – sembra ormai sparito dal panorama culturale. E invece Bruno Zevi, nato a Roma nel gennaio del 1918 e scomparso nello stesso mese del 2000, era proprio così, dotato di una apertura mentale che andava ben al di là del fatto di essere stato uno dei maggior architetti del suo tempo, oltre che un grande interprete e storico dell’architettura. Non per niente sarebbe rimasto sempre strenuamente fedele all’idea di una architettura «organica», cioè «olistica», come si direbbe oggi, fondata su un principio di integrazione fra uomo e natura in cui tutto si tiene grazie a un equilibrio che non è statico ma dinamico. Proprio come dinamica è stata la sua vita, sempre all’insegna di un movimento non solo geografico ma anche e soprattutto mentale. E creativo. Zevi lascia l’Italia nel 1939 a causa delle Leggi Razziali, va prima a Londra e poi negli Stati Uniti. Termina gli studi alla scuola di Design dell’Università di Harvard, diretta da Gropius. Contemporaneamente alla formazione accademica si dedica ben presto alla lotta contro il fascismo: dirige i Quaderni Italiani di Giustizia e Libertà, di cui gestirà da Londra la radio clandestina, e matura a poco a poco l’adesione al socialismo liberale. Torna a Roma nel 1944 e continua la sua lotta antifascista nei ranghi del Partito d’Azione. Dalla fine della guerra si avvia a una carriera affermata in tutto il mondo come architetto, storico dell’architettura, intellettuale a tutto campo. Dal 1955 sino alla morte firma la sua rubrica di architettura su L’Espresso, che è un po’ l’emblema della sua poliedricità, della capacità di parlare dell’uomo e del mondo attraverso gli edifici. E poi ci sono naturalmente le sue opere monumentali sulla Storia dell’architettura moderna e sulla Storia e Controstoria dell’architettura in Italia, che sono di fatto dei lavori in continuo divenire, a cui Bruno Zevi rimise mano più volte perché sino all’ultimo il suo «programma di lavoro» restò aperto, pronto al cambiamento. «Amo la ritualità, detesto il conformismo», diceva. E in questa frase così come in tanti altri suoi tratti c’è lo spartito di quell’ebraismo umanista in cui si riconosceva, e non solo manifestamente come nel libro dedicato a Ebraismo e Architettura (ora ristampato da La Giuntina). Bruno Zevi aveva un’identità ebraica forte e viva, e profondamente moderna, nel senso che obbediva a quell’adagio biblico – anzi profetico, di Geremia – che invita a «costruire per essere costruiti». Questo è il richiamo primo del sionismo socialista, che ha costruito Israele: (ri)costruire la patria degli avi, tornando al passato, per (ri)costruire se stessi, per uscire dal ghetto della storia e prendere in mano il proprio destino. E Zevi tanto ha costruito, come disse anche il rabbino Toaff al suo funerale, ricordando quanto l’architetto fece per la comunità ebraica romana devastata nell’immediato dopoguerra. Perché per Zevi essere ebrei è un fatto «eversivo» dal punto di vista culturale: è la capacità di ricrearsi e creare mondo nuovi. E lui personalmente ha assistito ad alcuni momenti cruciali di questa dinamica, come il passaggio alla spazialità dopo secoli di storia in cui gli ebrei avevano vissuto e abitato il tempo invece del luogo. Zevi aveva propensione per le dissimmetrie e le dissonanze, più che per l’armonia. Non cercava volumi perfetti, cercava la complessità nell’incontro fra i volumi architettonici, gli spazi esterni, l’uomo che abitava gli uni e gli altri. E in questa sua ricerca, con i suoi scritti, ha posto i fondamenti dell’architettura contemporanea, di un nuovo modo di stare al mondo, dentro lo spazio abitato.
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