Riprendiamo dalla STAMPA-TUTTOLIBRI di oggi, 27/01/2018, le recensioni di Elena Loewenthal e Paola Italiano
Elena Loewenthal- "Torniamo nel Lager per ascoltare la voce di chi ha visto l'inferno"
Elena Loewenthal
“Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sneto sempre più profondo il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppire, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà e che nel mondo torneranno tranquillità e pace”. Quanto ci manca, questa voce. E’ quella di Anne Frank nella penultima pagina del suo diario, a metà luglio del 1944, poco prima che il mondo la tradisse. Quanto ci manca quella sua voce di allora, e la voce che avrebbe avuto se le fosse stata data la vita invece della morte, perché di certo sarebbe diventata una grande scrittrice. Della sua voce abbiamo bisogno più che mai intorno al Giorno della Memoria, quando di anno anno i rituali del ricordo si ripetono, i libri si moltiplicano e a volte viene da pensare che bisognerebbe leggere soltanto lei, le sue pagine, insieme a quelle di Primo Levi. Tutto in fondo è già detto nei loro libri. Ci manca, Anne Frank. E allora non resta che provare a fare capolino dietro la porta dell’Alloggio Segreto, magari con gli occhi di Miep Gies, che era amica di famiglia dei Frank che dopo la guerra ebbe per prima fra le mani il diario. Miep Gies è mancata ultracentenaria nel 1909 ma ora provvidenzialmente Utet ripubblica il libro che scrisse insieme ad Alison Leslie Gold, “Si chiamava Anne Frank” (traduzione di Franceso Forti, pp.312, € 15). E’ un racconto intimo, pieno di affetto e nostalgia. Poche settimane prima di quel 4 agosto del 1944 in cui la Gestapo fece irruzione nell’Alloggio Segreto, portandosi via Anne e tutto il suo mondo, partì da Budapest un treno composto da trentacinque vagoni. Era pieno di ebrei: più di mille e seicento. Il convoglio giunse a Bergen Belsen il 9 luglio lasciando sgomenti i passeggeri, cui era stata assicurata ben altra destinazione. Furono rasati, spinti sotto le docce, confinati in una sezione di baracche del campo. Di lì ai primi di agosto 318 prigionieri furono effettivamente trasportati in Svizzera, in seguito poi toccò anche agli altri. Più di mille e seicento ebrei ungheresi si salvarono così, sul treno di Rudolf Kastner – giornalista e attivista sionista che trattò direttamente con Eichmann questa “operazione” in cambio di ingenti somme. Ma diversamente da altre vicende non dissimili – come quella di Schindler – dopo la guerra Kaster divenne l’antieroe della vergogna che aveva trattato con i nazisti e operato una spregiudicata selezione dei passeggeri, sulla base del censo e dei legami di parentela. Trasferitosi in Israele dopo la guerra, Kastner subì nel 1954 un processo in cui lo si definì “un’anima venduta al diavolo”. Nel 1957, a strascico di una devastante campagna d’odio fu assassinato per strada, a Tel Aviv, senza fare in tempo a vedere il ribaltamento della sentenza a suo carico, pronunciato dalla Corte Suprema d’Israele l’anno successivo. Su questa storia terribile e oscura, ma anche di salvezza, Michal Ben-Naftali innesta il romanzo “L’insegnante”, uscito in Israele nel 2015 ed ora nella traduzione italiana di Alessandra Shomroni per Mondadori ( pp. 185, € ???). Elsa Weiss era una mitica professoressa di inglese in un liceo di Tel Aviv: una di quelle figure che da dietro la cattedra lasciano un’impronta speciale nella memoria, di cui i suoi allievi parlano ancora decenni dopo, ritrovandosi fra vecchi compagni, magari già con i capelli bianchi. Elsa Weiss era una figura mitica non per il suo carisma, non per le sue lezioni travolgenti o per le sue stranezze. Lo era soprattutto perché la sua esistenza era avvolta dal mistero. Di lei non si sapeva nulla, se non che prima di fare lezione andava al mare a fare lunghe nuotate, in solitudine. E che in solitudine assoluta conduceva la propria vita fuori dal liceo. Complice anche la vocazione professionale che la porta su quelle stesse orme, Ben-Naftali decide di esplorare la storia della sua professoressa di inglese, che nell’estate successiva al suo esame di maturità si era uccisa buttandosi dalla finestra – senza scalfire, anzi addensando l’enigma che era stata la sua esistenza. “L’insegnante” è un romanzo che intreccia riflessione personale, biografia reale, invenzione, passato storico. Ne viene fuori un libro dove c’è a volte un eccesso di argomentazione a scapito della narrazione, dove si sente ogni tanto la mancanza di un dialogo. Ma anche questo fa parte della storia. Di quel terribile intruglio fatto di senso di colpa, rabbia, frustrazione intorno al quale ruota la vita di Elsa Weiss, salvatasi sul treno di Kastner: una di quei privilegiati fra i privilegiati che partirono per primi da Bergen Belsen, lasciando tutti gli altri ancora per un po’ indietro, nell’inferno. E perdendoli per sempre, tutti gli altri. Di questo è fatto il silenzio della professoressa, tutto questo sta dietro la sua rigidità inspiegabile che non è strumento didattico ma sostanza della sua persona. O per lo meno della persona che Elsa Weiss, nata Bloom, diventa dopo la guerra, dopo che si è salvata ed è riuscita ad arrivare in Terra d’Israele, dove la aspetta il fratello molto più grande di lei, partito per convinzione sionistica prima della guerra. Ma anche lui con il suo calore e la sua piccola famiglia si perde ben presto nel mondo di Elsa, un mondo tutto fatto di solitudine.
Paola Italiano: "In Italia sopravvivere fu questione di inventiva più che altruismo"
Paola Italiano
Gli ebrei nell’Italia occupata alla fine del settembre 1943 erano 38.994, di cui 5.542 stranieri. Quelli identificati, arrestati e deportati (morti o sopravvissuti) oppure uccisi in Italia prima della deportazione furono 7.172. Sfuggirono alla Shoah 31.822 ebrei, una percentuale superiore all’81%. È altissima se si considerano la persecuzione scientifica messa in atto e i dati di altri Paesi dell’Europa. Come hanno fatto tutte queste persone a salvarsi? A questa domanda cerca di rispondere il libro di Liliana Picciotto Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, frutto del progetto di ricerca lungo nove anni «Memoria della salvezza», realizzato dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec). I Giusti italiani riconosciuti da Yad Vashem sono 682. Hanno soccorso gli ebrei, li hanno nascosti o aiutati a scappare. Rappresentano una piccola parte di un atteggiamento popolare molto più ampio: ma è evidente che il loro numero non può spiegare la sopravvivenza di una così alta di sopravvivenza. Ci fu certamente un comportamento solidale, spontaneo e collettivo, soprattutto dopo il settembre 1943, ma bando alla retorica degli «italiani brava gente»: «Non esiste un buon italiano medio - scrive Picciotto -, ogni uomo può essere buono un giorno e cattivo un altro». I singoli hanno scelto di volta in volta come comportarsi di fronte al pericolo e ciò dipese da molti fattori: la percezione del rischio, l’avere legami con famiglie perseguitate, e se c’erano o meno bambini e anziani. I soccorritori hanno rovesciato il pensiero comune di allora, fatto di timore, diffidenza e assenza di umanità. Ma è inutile andare a cercare «un inesistente carattere collettivo italiano», anche perché è pieno di storie di soccorritori pienamente organici al regime fascista, che però di fronte all’orrore hanno fatto prevalere i principi di umanità. Piuttosto, la sopravvivenza di tanti ebrei è stato un fenomeno di «resilienza collettiva»: quello che contò enormemente, oltre agli atti di «altruismo privato», fu la capacità degli ebrei stessi di arrangiarsi, di affrontare il pericolo con intelligenza e inventiva, e con grande coraggio. Hanno avuto un peso in questa capacità molti elementi oggettivi. Le possibilità economiche, ad esempio: salvarsi voleva dire spesso vivere in clandestinità, ottenendo documenti falsi oppure nascondendosi. Affitto e cibo bisognava procurarseli sul mercato nero - e qui entra in gioco anche un altro fattore: il livello di integrazione. Più erano strette le relazioni sociali, più c’era possibilità di trovare sostegno. Gli ebrei dell’Europa occidentale - diversamente da quelli dell’Europa orientale - non erano individuabili in mezzo alla popolazione: non indossavano abiti tipici, non parlavano una lingua peculiare né erano occupati in mestieri caratteristici. In Italia poi, non furono obbligati a portare un segno distintivo sugli abiti, la stella gialla. Ma anche la geografia ha un ruolo nella mappa dei salvi: le grandi comunità di Piemonte e Lombardia, quasi un quarto degli ebrei italiani, furono favorite dalla vicinanza alla frontiera. Fondamentale è capire anche quale effettiva coscienza si avesse del massacro che era in corso. Spiega Picciolo che nel settembre del ’43 «presso il grande pubblico poco o nulla era trapelato della politica di sterminio in atto negli altri Paesi occupati». Solo dopo gli eccidi sulle rive del Lago Maggiore tra il 15 e il 22 settembre del 1943 e la retata tedesca a Roma, con l’arresto e la sparizione di più di mille persone, si materializzò la consapevolezza pubblica che qualcosa di terribile stesse accadendo agli ebrei (governo e alte sfere ecclesiastiche ne erano già informate). Ma era ancora «una nebulosa indistinta» e gli ebrei stessi tardarono a rendersene conto. Anche perchè sapere non significa sempre capire: soprattutto se quello che si racconta è di un’atrocità tale che la mente rifiuta di credere, se non di concepire.
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