Non esiste fascismo buono: le giuste dichiarazioni di Sergio Mattarella Commento di Giovanni Sabbatucci, editoriale del Foglio, il principe Emanuele Filiberto di Savoia difende il bisnonno che firmò le leggi razziste
Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Giornale Autore: Giovanni Sabbatucci - Emanuele Filiberto di Savoia Titolo: «Dietro la condanna del Ventennio l’ombra dei populismi autoritari - Il giusto senso da dare alla memoria - Il mio bisnonno era italiano: ha diritto di riposare in Patria»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/01/2018, a pag. 11, con il titolo "Dietro la condanna del Ventennio l’ombra dei populismi autoritari", il commento di Giovanni Sabbatucci; dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale "Il giusto senso da dare alla memoria"; dal GIORNALE, apag. 13, con il titolo "Il mio bisnonno era italiano: ha diritto di riposare in Patria", la lettera di Emanuele Filiberto di Savoia, preceduta dal nostro commento.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giovanni Sabbatucci: "Dietro la condanna del Ventennio l’ombra dei populismi autoritari"
Giovanni Sabbatucci
Nella cerimonia al Quirinale che ha inaugurato le celebrazioni del Giorno della memoria, il presidente della Repubblica non si è limitato alla celebrazione rituale o alla deplorazione generica. Ha invece affrontato la questione ancora scabrosa e dolente delle leggi razziali varate ottanta anni fa dal fascismo con toni decisi e argomentazioni nette, non scontate né usuali nei discorsi ufficiali di un capo di Stato. Anche per questo, oltre che per il suo contenuto, il discorso di ieri è destinato a occupare un posto di rilievo nella storia degli interventi presidenziali. Già in altre occasioni - da ultimo nelle motivazioni della nomina a senatrice a vita di Liliana Segre - Sergio Mattarella aveva manifestato una speciale sensibilità al tema: un’attenzione certo giustificata dal riproporsi - nelle piazze, sui social networks, in certe scritte murali, persino nella campagna elettorale - di atteggiamenti e slogan esplicitamente razzisti e neonazisti. In questo caso, però, l’obiettivo polemico principale è un altro: è la persistenza, è la sostanziale invarianza nel tempo di quei luoghi comuni consolatori che gli appartenenti alla generazione dei nati alla fine della seconda guerra mondiale sentono ripetere da sempre come un monotono ritornello: «il fascismo ha fatto anche cose buone», «la responsabilità delle persecuzioni razziale è tutta dei tedeschi», per finire col classico «ah, se Mussolini non fosse entrato in guerra…».
Su questi punti, il capo dello Stato è entrato decisamente nel merito, ricordando agli immemori e ai minimizzatori di turno alcuni dati di fatto non confutabili. Primo: il fascismo avrà fatto anche cose buone (quale regime non ne ha fatte?), ma questo non significa che fosse «in parte» buono, visto che le cose cattive bastano e avanzano per qualificarlo. Secondo: è certo che la primazia (logica e cronologica) delle persecuzioni razziali e dei relativi orrori, culminati nella Shoah, spetta alla Germania nazista, ma è altrettanto vero che gli italiani (quasi tutti) si adattarono alla legislazione antisemita senza proteste o intimi trasalimenti; e non pochi di loro (non tutti per la verità) si prestarono al ruolo di «volonterosi carnefici» sotto la Repubblica sociale, collaborando per la parte di loro competenza alla fase preliminare delle operazioni di sterminio. Terzo: la storiella di un Mussolini rovinato dalle cattive compagnie si basa su un’ipotesi del tutto infondata. Mussolini non poteva non fare la guerra, perché - come ha giustamente ricordato il presidente - il fascismo era un fenomeno costitutivamente autoritario e liberticida e inesorabilmente votato alla violenza e alla guerra. Questa almeno era la deriva assunta dal regime già prima dell’alleanza con Hitler e delle leggi razziali. Che poi Mussolini, come molti italiani, credesse poco alla teoria e alla mistica della razza e che vedesse la campagna antisemita come un’iniezione di spiriti bellicosi nel corpo del popolo, è altro discorso: ma dal punto di vista etico - mi sentirei di aggiungere - questo rappresenta un’aggravante più che un attenuante.
E’ dunque, quella del presidente Mattarella, una presa di posizione che non lascia adito a dubbi interpretativi e che non ha solo il valore di una precisazione storiografica. Serve, in una difficile fase pre-elettorale, a ribadire i confini della legittimità repubblicana, collocando decisamente l’Italia nel novero delle democrazie liberali, e ad allontanarla dal modello delle democrazie autoritarie e populiste (le «democrature«), verso cui alcuni Paesi dell’Est Europa stanno pericolosamente inclinando.
IL FOGLIO: "Il giusto senso da dare alla memoria"
Un virus letale – quello del razzismo omicida – era esploso al centro dell’Europa, contagiando nazioni e popoli fino a pochi anni prima emblema della civiltà, del progresso, dell’arte”, ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, onorando la memoria della Shoah. “Auschwitz era il frutto più emblematico di questa perversione”. Viene cosi centrato il cuore, illuministico e ultra moderno, della Shoah, nata dal seno della cultura tedesca. Mattarella ne ha anche per l’Italia. “Lo stato italiano del Ventennio espelleva dal consesso civile una parte dei suoi cittadini, venendo meno al suo compito fondamentale, quello di rappresentare e difendere tutti gli italiani. Alla metà del 1938, con le leggi antiebraiche, rivolgeva il suo odio cieco contro una minoranza di italiani, attivi nella cultura, nell’arte, nelle professioni, nell’economia, nella vita sociale”. E ancora: “Cacciare i bambini dalle scuole, espellere gli ebrei dall’amministrazione statale, proibire loro il lavoro intellettuale, confiscare i beni e le attività commerciali, cancellare i nomi ebraici dai libri, dalle targhe e persino dagli elenchi del telefono e dai necrologi sui giornali costituiva una persecuzione della peggiore specie”. Queste lunghe citazioni di un discorso strategico e ambizioso confermano quanto molti sentono, anche se pochi scandiscono, per pudore, imbarazzo, compiacenza. Lo ha detto al Corriere della Sera il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che ha indicato il rischio di “una nuova Shoah”. E’ inimmaginabile, impensabile, indicibile, ed è dai più accolta con una scrollata di spalle. Ma pensare l’impensabile è quello che dovrebbe spingere a fare una Giornata della memoria. Eccoci dunque: gli ebrei fuggono dalla Francia (40 mila in pochi anni), i bambini ebrei sono stati uccisi, i docenti ebrei israeliani sono stati boicottati, la follia dello sterminio e della ideologia divampa in medio oriente, si incitano le folle contro Israele e per la “difesa di Gerusalemme, a Milano si evoca la loro morte, come testimoniato dal Foglio. In questo scenario, l’Iran, che ha fatto della negazione della Shoah e della distruzione di Israele il centro della sua politica estera, persegue i suoi sogni egemonici. Non è certo il 1938, ma non è neppure un bel vedere. E spetta all’Europa dare un senso a quelle due parole: never again.
IL GIORNALE - Emanuele Filiberto di Savoia: "Il mio bisnonno era italiano: ha diritto di riposare in Patria"
L'intervento confuso del giovane principe che contesta la chiara posizione di rav Riccardo Di Segni su Vittorio Emanuele III trova spazio sul Giornale. Il rampollo di tanto nobile casato farebbe meglio a riflettere sulla responsabilità del bisnonno nella promulgazione delle leggi razziste, che aprirono le porte alla Shoah in Italia.
Ecco la lettera: Emanuele Filiberto di Savoia
Eccellentissimo rav Di Segni, le indirizzo queste poche righe in prossimità del Giorno della Memoria, cogliendo tale circostanza per manifestare la piena, totale e profondamente sentita adesione della mia Casa alle commemorazioni previste per il 27 gennaio, giornata in cui si ricordano le vittime della Shoah. Non le scrivo per esprimere dalle pagine del Giornale giudizi sul regno del mio bisnonno Vittorio Emanuele III, lungo quarantasei anni, sul quale ho avuto modo di parlare molte volte dal mio rientro in Italia dopo la fine dell'esilio al quale ero costretto con mio padre, fino all'abrogazione della XIII disposizione transitoria della Costituzione, nel 2002. Se ricorda, il nostro primo atto al momento del ritorno in Patria fu una nota ufficiale di condanna delle ignobili leggi razziali del 1938, affinché ne restasse sempre un'inequivocabile testimonianza scritta. Concetti ripetuti anche in un altro documento che consegnai personalmente a nome della mia Casa al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Amos Luzzatto nel corso della mia visita alla mostra sulle persecuzioni antiebraiche in Italia nel 2005. Tutto ciò come doverosa premessa. Sono rimasto però sinceramente addolorato leggendo la sua intervista pubblicata nei giorni scorsi su un noto quotidiano, nel corso della quale, in risposta ad una domanda sul rientro in Italia delle spoglie del mio bisnonno, Lei ha affermato lapidariamente: «Vittorio Emanuele III stava bene dove stava». Le scrivo semplicemente per esternarle il mio sincero dolore per un'affermazione così dura, soprattutto perché nasce da un uomo che vive quotidianamente l'esperienza della fede e della preghiera come lei. Le spoglie di Vittorio Emanuele III a suo avviso stavano bene dove stavano. Cioè in una chiesa di Alessandria d'Egitto, purtroppo esposta alla cieca violenza di matrice fondamentalista islamica che sta insanguinando quelle martoriate e bellissime terre. Una realtà che purtroppo sia lei che le Comunità ebraiche di tutto il mondo conoscono bene, vivendola quotidianamente sulla propria pelle. Chi meglio di lei poteva comprendere la nostra sincera preoccupazione familiare che la tomba venisse violata e profanata da terroristi e facinorosi assetati di odio e di vendetta? Inoltre, Vittorio Emanuele III era italiano e io penso che ogni uomo abbia il più che fondato diritto di riposare nella terra in cui è nato e in cui è vissuto. Non penso quindi che Vittorio Emanuele III «stesse bene dove stava». E penso che lei ben conosca la sofferenza dell'esilio, un tema che torna spesso anche nelle pagine della Scrittura. Ricordo alcune parole del Salmista: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre...». Mi ha invece fatto sinceramente piacere il suo grato ricordo di re Boris III di Bulgaria che sposò la mia prozia Giovanna di Savoia, figlia proprio di Vittorio Emanuele III e sorella prediletta di mio nonno, il Re Umberto II, nonché di Mafalda (deceduta nel lager nazista di Buchenwald nell'agosto 1944). Concludo precisando che le rispondo dalle pagine del Giornale perché, pur non essendo molto complesso reperire i miei riferimenti, ha ritenuto opportuno manifestare il suo pensiero attraverso un quotidiano. Penso che, in ogni caso, sarebbe stato bello parlare per telefono o corrispondere per lettera: creare un momento di dialogo insieme porta sempre frutto. Mi auguro ci sia occasione di presto incontrarla di persona.