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Il Foglio Rassegna Stampa
26.01.2018 Il caos in Siria e gli errori francesi
Analisi di Francesco Maselli

Testata: Il Foglio
Data: 26 gennaio 2018
Pagina: 3
Autore: Francesco Maselli
Titolo: «Così Parigi ha perso la Siria»
Riprendiamo dal FOGLIO del 26/01/2018, a pag. III, con il titolo "Così Parigi ha perso la Siria" l'analisi di Francesco Maselli.

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Francesco Maselli


Secondo un telegramma diplomatico americano diffuso da Wikileaks, nel 2010 la Francia poteva vantare un “accesso unico” al regime siriano, per natura opaco e refrattario all’influenza del mondo occidentale. Un rapporto speciale e storico, che tuttavia non ha salvato Parigi da una serie di errori di valutazione, tanto da rendere la Francia irrilevante nella guerra civile. Emmanuel Macron, che ha dimostrato di voler giocare un ruolo molto attivo in medio oriente, eredita una posizione troppo debole per pesare sul futuro di Bashar el Assad e della Siria. “La nostra politica in Siria è stata umanamente geniale ma politicamente disastrosa, ci siamo marginalizzati da soli”, ci spiega Georges Malbrunot, reporter del Figaro esperto di medio oriente e autore, insieme a Christian Chesnot di France Inter, di “Les Chemins de Damas”, un libro che ripercorre le relazioni franco-siriane dagli anni Ottanta a oggi, ed è molto critico, a tratti stupefatto, dalla posizione “suicida” della Francia. Quando nel 2011 esplodono le prime rivolte in Siria, sostiene Malbrunot, all’Eliseo e al ministero degli Esteri sono traumatizzati dall’esito delle manifestazioni in Tunisia ed Egitto. Convinti che Ben Ali a Tunisi e Hosni Mubarak al Cairo sarebbero riusciti a contenere la folla, da Parigi non esitano a schierarsi dalla loro parte: “L’analisi sulla Tunisia e l’Egitto si rivelò sbagliata, le rivoluzioni ebbero successo. A quel punto l’Eliseo sposò la teoria del domino, per loro Assad aveva i giorni contati”.

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Rovine in una città siriana

La Francia vuole anticipare ciò che ritiene inevitabile, al prezzo di non ascoltare i rapporti dell’ambasciatore a Damasco, Éric Chevallier, in Siria dal 2009, che per mesi avverte Nicolas Sarkozy e Alain Juppé, ministro degli Esteri, sulla resilienza di Assad. Il dittatore può ancora contare sul sostegno della borghesia sunnita, e l’apparato statale è in grado di contenere la rivolta e, nel caso, di reprimerla nel sangue. Spinto dalla voglia di essere dalla “parte giusta della storia”, il ministero degli Esteri sottovaluta i telegrammi dell’ambasciata e i rapporti dei servizi sul campo, e decide di andare fino in fondo. I francesi sono i primi a dichiarare il regime di Assad “illegittimo” nel luglio 2011, e decidono di chiudere l’ambasciata a Damasco nel marzo 2012, privandosi di ogni fonte diplomatica. Michel Duclos, ambasciatore a Damasco dal 2006 al 2009, spiega al Foglio il motivo quasi morale di una scelta del genere: “A posteriori è sempre più semplice, ma non condivido questa idea che la Francia doveva restare dal lato del più forte. Forse la nostra politica in Siria è stata disastrosa, ma abbiamo salvato l’onore. E’ un punto importante”. François Hollande, al potere dal 2012, è uno dei capi di stato più duri nei confronti di Assad. Per mesi il suo ministro degli Esteri, Laurent Fabius, moltiplica le dichiarazioni furiose contro il regime: “Quando a metà agosto del 2012 incontra la comunità di Azaz che gli descrive i bombardamenti subiti dagli assadisti, lascia esplodere la sua rabbia davanti ai giornalisti presenti ‘Assad non merita di essere su questa terra’, sbotta, quasi incoraggiando i giovani francesi ad andare a combattere contro il ‘tiranno’ siriano”, scrivono Malbrunot e Chesnot. Nel 2013, dopo aver avuto le prove dell’utilizzo di armi chimiche nel bombardamento di Goutha, alla periferia di Damasco, i francesi sono pronti a intervenire. Tra il 27 e il 30 agosto mobilitano marina e aeronautica per un colpire una ventina di bersagli, basi militari, centri di stoccaggio, edifici simbolo del regime. La sera del 31 agosto però Barack Obama fa un passo indietro, lasciando Parigi da sola. L’operazione è annullata. “Trattare adesso con i siriani è complicato. Siamo stati i più duri di tutti nei confronti di Assad, lo spazio per tornare al tavolo delle trattative c’è sempre, ma il prezzo da pagare sarebbe molto alto”, nota Malbrunot. Emmanuel Macron è prigioniero delle posizioni dei suoi predecessori: “Trovo sia positivo che il presidente si muova in medio oriente con un’agenda pragmatica. Tuttavia riaprire l’ambasciata ed eliminare alcune sanzioni sono delle condizioni inaccettabili. In più non abbiamo granché da offrire, la situazione è destinata a restare tale per noi. Non credo sia possibile immaginare una foto tra Macron e Assad, la stampa insorgerebbe, il gioco non vale la candela ”.

Il reporter del Figaro ci dice perché la Francia ha sottovalutato più volte la resilienza di Assad che ormai difficilmente lascerà il potere a breve termine. “A Parigi si credeva che un leader minoritario sarebbe stato sopraffatto dalla rivolta sunnita. Ma sottovalutavano due punti importanti: il primo è che il regime gode del sostegno di una parte della borghesia sunnita terrorizzata dal vuoto di potere simile a quello iracheno o libico. Il secondo è che, proprio per il carattere minoritario del suo potere, Assad lotta per la sopravvivenza. Il regime non si fermerà davanti a niente per evitare di essere spazzato via”. La situazione, per Malbrunot, è irrecuperabile: “La Siria l’abbiamo persa almeno per i prossimi dieci anni. Dovevamo pensarci prima”. Com’è stato possibile per i francesi passare da un accesso “unico” alla Siria a una posizione marginale? Per capirlo è utile ripercorrere il “cammi - no di Damasco” intrapreso dai presidenti. Dal 1920 al 1946 la Siria è sotto mandato francese, Parigi ha un ruolo fondamentale nella transizione del paese da provincia dell’im - pero ottomano a stato indipendente. E il regime le deve molto. La famiglia Assad, che governa la Siria dal 1970, è alauita, un gruppo etnico e religioso vicino agli sciiti minoritario nel paese. Durante il mandato i francesi creano il “territorio degli alauiti” nel nord ovest, contribuendo in modo decisivo all’af - fermazione del sentimento nazionalista dell’etnia e alla sua integrazione nell’ammini - strazione dello stato, soprattutto nell’esercito. La Siria non ha mai riconosciuto davvero l’autonomia concessa dai francesi ai libanesi dopo la fine del mandato, e ha sempre considerato il piccolo paese con cui confina a ovest parte integrante della “Grande Siria”. Per questo ne ha a lungo influenzato la politica, occupandolo militarmente per più di trent’anni, fino al 2005.

Parigi, al contrario, ha sempre considerato una sua priorità proteggere la grande comunità cristiano maronita del paese. Il 4 settembre 1981 in una Beirut in piena guerra civile, Louis Delamare, ambasciatore francese in Libano, è assassinato da due uomini mentre compie il suo tragitto quotidiano in automobile tra l’ambasciata e la sua residenza. Pochi giorni dopo, Elie Hobeika, capo dei servizi segreti delle milizie cristianolibanesi, impegnate nella guerra civile contro le fazioni appoggiate dai siriani, contatta i diplomatici francesi e dà i nomi dei due assassini. Sono agenti di al Saiqa, una milizia legata ai servizi segreti siriani e affiliata al partito Baath, la formazione politica del dittatore siriano Hafez el Assad. La reazione della Francia è durissima. Il presidente François Mitterrand ordina l’eliminazione dei due assassini, che rintracciati da un commando della Dgse (i servizi segreti esterni francesi) sono uccisi poche settimane dopo. Il 29 novembre, i francesi partecipano all’organizzazione di un attentato alla sede del partito Baath a Damasco che provoca 175 morti. La Siria risponde con attentati sul territorio francese: il 22 aprile 1982 un’autobomba esplode di fronte alla sede della rivista antisiriana el Watan, provocando 69 feriti e un morto; il 9 agosto, a rue des Rosiers, un gruppo di cinque uomini armati fa irruzione nel ristorante ebraico Jo Goldenberg, lancia una granata e spara contro i tavoli uccidendo sei persone, e ferendone 29. L’attentato, mai ufficialmente rivendicato, è con ogni probabilità organizzato dal consiglio rivoluzionario di Fatah, organizzazione palestinese, ma secondo Parigi il contributo dei servizi siriani è decisivo.

Uomo pragmatico, negli anni successivi Mitterrand riuscirà a normalizzare i rapporti con la Siria per evitare ripercussioni sulla presenza francese nella regione. Il rapporto più profondo e contraddittorio tra i due paesi è costruito durante la presidenza di Jacques Chirac. Il 10 giugno 2000 Hafez el Assad muore a Damasco e Chirac vede un’occasione per aumentare la sua influenza in Siria: il successore, Bashar, è considerato malleabile e filoccidentale. Il presidente decide dunque di partecipare ai funerali del rais, unico capo di stato occidentale presente, pronto a diventare il “padrino” del nuovo rais per aiutarlo nelle riforme e risolvere la guerra civile in Libano. Come racconta un diplomatico europeo a Malbrunot e Desnot, Chirac si sbaglia: “Siamo noi che abbiamo inventato questa storia di un giovane presidente aperto, moderno e per forza di cose simpatico perché ha sposato una bella donna e vuole sviluppare internet nel suo paese. Non è lui che ha creato questa immagine, siamo stati noi. Gli abbiamo incollato un’etichetta che piaceva agli occidentali e in particolare alla Francia, perché ci sarebbe piaciuto molto che ci assomigliasse davvero”. Chirac stesso, nelle sue memorie, descrive l’atteggiamento paternalistico nei confronti del giovane Bashar: “E’ come tuo figlio, devi trattarlo come tale, mi aveva dichiarato Hafez el Assad poco prima di morire. Il presidente siriano era manifestamente preoccupato di dotare il suo successore designato, ancora molto inesperto, di una sorta di tutore”.

Bashar e Chirac si incontrano per la prima volta nel 1999, per un pranzo informale all’Eliseo. E’ il modo per cominciare a tessere una relazione, ma non soltanto: Bashar è a Parigi per affari. Il giovane figlio del dittatore controlla la società informatica siriana, ufficialmente creata per introdurre internet e cellulari nel paese, ufficiosamente per intercettare le comunicazioni della popolazione. Uno strumento chiave per una dittatura di stampo sovietico. Bashar ha ottimi rapporti con Alcatel, il colosso francese delle telecomunicazioni, che fornisce al governo siriano una rete di telefoni Gsm criptati per la guardia presidenziale e un sistema di comunicazione per l’aeronautica. I francesi sono ben disposti, il giovane Assad, eletto presidente con un plebiscito il 10 luglio 2000, sembra disponibile ad avviare una serie di riforme per rendere la Siria uno stato più liberale. Di fronte alle aperture concesse da Assad, Chirac attiva una serie di programmi bilaterali per la costruzione di un’amministrazione efficiente: la Siria intende copiare il modello francese, ed è subito accontentata. Nel 2003, apre a Damasco l’Institut national d’administration (Ina), una scuola per alti funzionari sul modello dell’Ena francese. In quegli stessi anni è avviato un programma per formare in Francia più di 500 dottorandi siriani in scienze sociali e tecniche. Già prima dell’apertura di Chirac le amministrazioni dei due paesi avevano collaborato in modo molto proficuo. Secondo le informazioni pubblicate di Chesnot e Malbrunot, tra gli anni Settanta e Ottanta la Francia ha formato 46 studenti siriani in varie scuole politecniche, senza contare i siriani arrivati in Francia per specializzarsi in settori sensibili come quello chimico o nucleare dopo la laurea. Fondamentali, inoltre, i rapporti tra l’industria chimica francese e quella siriana. Tra il 1982 e il 1986 le importazioni di prodotti farmaceutici francesi in Siria aumenta dal 13,11 per cento al 23 per cento. E’ soltanto nel 1992 che Parigi si rende conto dell’utilizzo distorto che il regime iniziava a fare dei quadri formati nelle scuole francesi e dei prodotti venduti, e mette fine alle collaborazioni nel settore, costringendo Damasco a guardare a Mosca. Troppo tardi: quando nel 2013 i servizi segreti francesi pubblicano il dossier che accusa il regime di Bashar el Assad di aver utilizzato armi chimiche, emerge il ruolo decisivo dei francesi per la costruzione dell’arsenale. Ma torniamo a Chirac. Dopo un breve periodo di riforme, in Siria tutto si arena e il dossier libanese è di nuovo il motivo di una crisi tra i due paesi. Dominique de Villepin, ministro degli Esteri di Chirac, forte della grande credibilità acquisita da Parigi nel mondo arabo per la sua opposizione alla guerra in Iraq, inizia a evocare la ritirata delle truppe siriane dal Libano. Dal gennaio 2004, Chirac lavora dietro le quinte con il suo amico libanese, Rafiq Hariri, all’epoca primo ministro, per raggiungere l’obiettivo. I rapporti tra il politico e imprenditore libanese e Chirac sono più profondi di una semplice intesa politica. I due si considerano fratelli: si conoscono nel 1981 a Washington, a una cena organizzata per finanziare la campagna presidenziale di Jacques Chirac e da allora diventano praticamente inseparabili. Un rapporto talmente forte che nel 2007, quando Chirac lascia l’Eliseo dopo il secondo mandato, si trasferisce “provviso - riamente” in un bellissimo appartamento sul Lungosenna di proprietà del clan Hariri.

L’ex presidente non ha ancora cambiato indirizzo. Ai siriani l’influenza del politico libanese non piace, l’attivismo di Chirac ancora meno. Il 14 febbraio 2015 Hariri muore in un attentato a Beirut: una camionetta con circa due tonnellate di esplosivo sperona l’auto del politico libanese, uccidendo venti passanti e ferendone cento. A oggi l’inchiesta internazionale non ha ancora fatto luce sui responsabili, ma per Chirac, visti i rapporti tesi tra le parti e varie testimonianze su minacce esplicite del regime nei confronti del suo amico, sono stati i siriani a organizzare tutto. Offuscato da quella che ritiene una questione personale, prova a vendicarsi in tutti i modi: un mese e mezzo dopo riesce a ottenere il ritiro totale delle truppe siriane dal Libano grazie all’appoggio americano, convinto che una sconfitta del genere sarà “mortale” per il regime. Un’analisi che si rivelerà sbagliata: Assad non è scalfito dalla ritirata, e resta al potere. Michel Duclos ci spiega che “Il regime è per natura non permeabile, è difficile destabilizzarlo dall’esterno. Questo però non vuol dire che con Assad si debba discutere come fosse un capo di stato normale, tra l’altro una posizione del genere è smentita dalla nostra esperienza”. E infatti, arrivato al potere nel 2007, anche Nicolas Sarkozy commette l’errore di credere che il dittatore siriano, dopotutto, non sia così lontano da un capo di stato occidentale. Sarkozy intende mantenere le promesse della sua campagna elettorale, giocata sulla “rottura” della politica del suo predecessore. Uno dei primi atti di politica estera del presidente è coerente con l’impostazione: tra i vari invitati alla tradizionale parata del 14 luglio sugli Champs Elysees figura Bashar el Assad. Un “colpo” per il dittatore, dal caso Hariri al di fuori di qualunque concerto internazionale. Sarkozy crede genuinamente che sotto la sua influenza Assad porterà a termine le riforme necessarie, e per questo si mostra molto ben disposto. Secondo Malbrunot “Ha commesso l’errore di dare senza chiedere, credendo che in futuro i siriani avrebbero ricambiato. Ma con Assad non funziona così, se non si imposta il rapporto su questo principio dall’inizio lui comprende che può ottenere quello che vuole senza fare concessioni”. Nonostante i grandi passi verso la Siria e la certezza di avere un rapporto privilegiato con Assad, Sarkozy non riesce a convincere il dittatore siriano a concedere i maggiori spazi di libertà chiesti dai manifestanti nel 2011. La situazione poi, com’è noto, precipita in pochi mesi, e il presidente francese, arrivato agli ultimi mesi di mandato, si trasforma nel più duro avversario del regime. Il dossier siriano sarà uno dei più complicati da risolvere per Emmanuel Macron. La Siria si lega irrimediabilmente a tutti gli altri teatri in cui il presidente francese vuole essere protagonista, specialmente quello iraniano. Ed è proprio l’Iran, oltre alla Russia, che esce rafforzato dalla guerra civile siriana: la strategia del presidente francese, sostenitore dell’accordo sul nucleare con Teheran, prevede un contenimento dell’azione dell’Iran in medio oriente. Ma la debolezza francese in Siria rischia di privare Parigi di una carta importante da giocare. Anche perché, come un diplomatico iraniano ha raccontato a Georges Malbrunot, “Non ci potrà essere una soluzione alla guerra in Siria senza l’Iran. Ma potrà essercene certamente una senza la Francia”.

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